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Cives, Maria Cristina Bolla sulla democrazia in Grecia e a Roma

Foto di gruppo

La partecipazione alla vita pubblica, nell’antica Grecia, era un pilastro fondamentale dell’esistenza di tutti i cittadini. Chi si disinteressava veniva visto con diffidenza, estraniarsi dalla politica voleva dire non possedere capacità basilari: era un “idiota”, un rozzo, un inabile. Il termine che oggi suona come un insulto, all’epoca definiva chi se ne stava in disparte. Secondo Pericle, chi non si interessava a questioni pubbliche era un “uomo inutile”. Sembra una democrazia perfetta, quella di Atene. Ma quando comanda la massa, facilmente plasmabile con lusinghe, il rischio di trascinarla qua e là per il proprio interesse è evidente. Alle parole dell’Araldo tebano, Teseo non sa rispondere. Dice la verità, descrivendo una dinamica che all’uomo del ventunesimo secolo non appare troppo remota (anzi), un modo di vivere la politica che era già presente in quella che è considerata la democrazia per antonomasia.

Aidós e Dike

La lezione di Maria Cristina Bolla, già docente di lettere al Liceo Gioia di Piacenza, è un tuffo nel passato: un passato che non si archivia, un “eterno ritorno dell’uguale”, come lo chiamerebbe Nietzsche. Bolla è stata ospite del corso di formazione Cives all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza nella serata di venerdì 5 dicembre per parlare della “democrazia nel mondo antico”. L’incontro è stato guidato dagli studenti Gabriele Siliprandi, Riccardo Riva Chitti e Matteo Zaffignani. Due esempi, per certi versi opposti, sono stati illustrati dalla docente: da un lato la Grecia, dall’altro Roma. Il popolo che decide e l’impero dell’uomo solo al comando, la cittadinanza “elitaria” e quella “allargata”. Entrambe la “culla” di ciò che conosciamo oggi come politica. “Zeus mandò Ermes a distribuire a tutti gli uomini Aidós e Dike, cioè rispetto e giustizia. Solo con il sapere tecnico donato loro da Prometeo, avrebbero iniziato a massacrarsi a vicenda”, ha spiegato Bolla riprendendo il mito narrato nel “Protagora” di Platone. “Nell’Atene dell’epoca, tutti i cittadini potevano essere eletti a una carica, a sorteggio. Si accedeva a rotazione, in modo da garantire sempre un controllo reciproco. Tutte le cariche erano retribuite, a un certo punto perfino andare a teatro venne considerata un’azione politica e quindi meritevole di compenso. C’era una competenza politica elevata e omogenea nel corpo sociale”, ha detto la professoressa.

La “parresia”, o libertà di parola

“Abbiamo un ordinamento politico che non imita quello dei vicini: il suo nome è democrazia, perché il governo è affidato a molti e non a pochi. Ne avevano accesso tutti, poveri e ricchi, che ne avessero rispetto”. Fermandosi alla definizione data da Pericle (nelle Storie di Tucidide), la democrazia ateniese appare quasi come la realizzazione di un’utopia. E a teatro la satira era autorizzata a parlare (male) di tutti. La parresia, cioè la libertà di parola, il diritto-dovere di dire la verità con franchezza, era un principio base. Anche il cattolicesimo, nella storia recente, ne ha sottolineato l’importanza. Pochi anni prima (1944), papa Pio XII – citato da Bolla – disse di mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la propria opinione personale, e di esprimerla e farla valere in una maniera confacente al bene comune. “La parresia ateniese è ricomparsa con papa Francesco che l’ha citata come un dono dello Spirito Santo”.

La cittadinanza ad Atene

Ma neanche la satira, seppur pungente, riusciva a far cambiare idea al popolo: ne è una dimostrazione la storia di Cleone, sbeffeggiato da Aristofane e poi rieletto. Di fatto, già allora – sebbene le belle parole sulla democrazia – vigeva la legge del più forte: “Chi possiede la forza comanda, Callicle diceva che la legge era la difesa dei deboli, secondo Trasimaco la forza non era contro, ma dietro la legge. Cosa è giusto? Ciò che si conforma alle leggi. Ma chi fa le leggi? Chi detiene il potere. E quindi, se è a vantaggio di chi comanda, la giustizia è asservita alla forza”, sintetizza Bolla. I malumori si facevano sentire: un sistema politico che consentiva “alla canaglia di stare meglio della gente per bene” non era visto di buon occhio da tutti. “Nell’Atene di allora, per essere cittadino bastava essere in grado di esercitare la principale funzione dei maschi adulti liberi: fare la guerra. Di fatto, solo coloro che avevano i soldi per armarsi potevano essere cittadini. E vigeva un’appartenenza di sangue: per essere cittadino bisognava essere figlio di un ateniese. Poi arrivò la riforma di Pericle: non bastava più avere il padre ateniese, ma anche la madre, per essere cittadini”. Con l’imperialismo marittimo ateniese e la formazione di “sudditi” da asservire al potere, la tendenza ai “matrimoni misti” si era accentuata.

La cittadinanza nell’Impero Romano

“Per i Romani il primo criterio per essere cittadini è sottostare alla legge”, ha spiegato Maria Cristina Bolla. Tutti gli uomini liberi potevano essere cittadini: se nel 90-89 a.C. la cittadinanza era concessa a tutti gli Italici, nel 212 d.C. si arrivò a estenderla a tutti gli abitanti dell’Impero. “Nessuno è giuridicamente escluso dal suffragio, il che sarebbe tirannico – diceva Cicerone – ma la moltitudine non ha una reale influenza, cosa che sarebbe pericolosa”. “Il popolo – ha detto Bolla – partecipava al voto in varie assemblee, i comitia, diviso in 193 centurie: ognuna di esse esprimeva un solo voto, dava la stessa frazione dell’imposta e lo stesso contributo all’esercito. I contribuenti più leali erano quelli che avevano qualcosa da difendere. Alle cariche pubbliche romane accedeva chi aveva una tradizione familiare alle spalle: era necessario il cursus honorum: censore, questore (e quindi senatore) e poi console”.

Da Civis a Optimus Civis

“Senatori e consoli andavano personalmente a combattere. Così, nelle guerre annibaliche, la classe politica romana venne decimata. Ma Roma riuscì a resistere grazie al suo regime misto. Quest’equilibrio andò in crisi con l’avvento dei soldati professionisti e gli eserciti dei leader come Mario e Silla: emersero figure di potere individuale e gli homines novi. Chi governava Roma si chiamava semplicemente «Civis» (al plurale Cives, come il nome del corso, nda). In seguito, Cicerone costruì la figura dell’Optimus Civis. “Per tutti coloro che avranno conservato, aiutato o accresciuto la patria – diceva – è stabilito che vi sia in cielo un luogo definito, dove possano godere felici di un’eterna esistenza”.

Francesco Petronzio

Pubblicato il 6 dicembre 2025

Nella foto, i partecipanti a Cives con Maria Cristina Bolla.

Sottocategorie

  • Un libro per capire le differenze tra cristianesimo e islam e costruire il dialogo

    uslam


    “La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi è di coniugare la più leale e condivisa partecipazione al dialogo interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo”. Con questa citazione del cardinale Raniero Cantalamessa si potrebbe cercare di riassumere il senso e lo scopo del libro “Verità e dialogo: contributo per un discernimento cristiano sul fenomeno dell’Islam”, scritto dal prof. Roberto Caprini e presentato di recente al Seminario vescovile di via Scalabrini a Piacenza grazie alle associazioni Confederex (Confederazione italiana ex alunni di scuole cattoliche) e Gebetsliga (Unione di preghiera per il beato Carlo d’Asburgo).

    Conoscere l’altro

    L’autore, introdotto dal prof. Maurizio Dossena, ha raccontato come questa ricerca sia nata da un interesse personale che l’ha portato a leggere il Corano per capire meglio la spiritualità e la religione islamica, sia da un punto di vista storico sia contenutistico. La conoscenza dell’altro - sintetizziamo il suo pensiero - è un fattore fondamentale per poter dialogare, e per conoscere il mondo islamico risulta di straordinaria importanza la conoscenza del Corano, che non è solo il testo sacro di riferimento per i musulmani ma è la base, il pilastro portante del modus operandi e vivendi dei fedeli islamici, un insieme di versi da recitare a memoria (Corano dall’arabo Quran significa proprio “la recitazione”) senza l’interpretazione o la mediazione di un sacerdote. Nel libro sono spiegati numerosi passi del Corano che mettono in luce le grandi differenze tra l’islam e la religione cristiana, ma non è questo il motivo per cui far cessare il dialogo, che secondo Roberto Caprini “parte proprio dal riconoscere la Verità che è Cristo. Questo punto fermo rende possibile un dialogo solo sul piano umano che ovviamente è estremamente utile per una convivenza civile, ma tenendo sempre che è nella Chiesa e in Cristo che risiede la Verità”.

    Le differenze tra le due religioni

    Anche il cardinal Giacomo Biffi, in un’intervista nel 2004, spiegò come il dovere della carità e del dialogo si attui proprio nel non nascondere la verità, anche quando questo può creare incomprensioni. Partendo da questo il prof. Caprini ha messo in luce la presenza di Cristo e dei cristiani nel Corano, in cui sono accusati di aver creato un culto politeista (la Santissima Trinità), nonché la negazione della divinità di Gesù, descritto sempre e solo come “figlio di Maria”. Queste divergenze teologiche per Caprini non sono le uniche differenze che allontanano il mondo giudaico-cristiano da quello islamico: il concetto di sharia, il ruolo della donna e la guerra di religione sono aspetti inconciliabili con le democrazie occidentali, ma che non precludono la possibilità di vivere in pace e in armonia con persone di fede islamica. Sono chiare ed ampie le differenze religiose ma è altrettanto chiara la necessità di dover convivere con persone islamiche e proprio su questo punto Caprini ricorda un tassello fondamentale: siamo tutti uomini, tutti figli di Dio. E su questo, sull’umanità, possiamo fondare il rispetto reciproco e possiamo costruire un mondo dove, nonostante le divergenze, si può convivere guardando, però, sempre con certezza e sicurezza alla luce che proviene dalla Verità che è Gesù Cristo.

                                                                                                   Francesco Archilli

     
    Nella foto, l’autore del libro, prof. Roberto Caprini, accanto al prof. Maurizio Dossena.

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