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«Il Nucleo Mimosa visto da me»

 

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È stata una Festa del papà speciale quella di quest’anno al Cra (Casa Residenza per Anziani) San Giuseppe di via Morigi. Non solo in quanto l’istituto prende il nome del santo a cui si associa la festa, San Giuseppe appunto, ma anche perché, proprio in questa occasione, uno dei tanti papà per cui quella struttura è diventata, suo malgrado, quasi una nuova casa, ha regalato - con la sua storia e la testimonianza di un percorso di malattia che gli ha portato via perfino la voce - un momento speciale di condivisione tra famigliari, istituzioni – presente il sindaco Patrizia Barbieri - ospiti e personale ospedaliero, fatto di grande umanità e commozione.
Lui è Antonio Rabuffi, ottant’anni, piacentino di nascita, e dal 26 gennaio 2018 è ricoverato presso il Nucleo Mimosa della Cra San Giuseppe, l’unità della struttura destinata all’accoglienza di persone con gravissima disabilità acquisita. Nel pomeriggio del 19 marzo, Rabuffi ha presentato il libro “Il Nucleo Mimosa visto da Me”, breve e genuino resoconto - scritto a quattro mani con gli operatori sanitari- della sua esperienza presso l’istituto che lo ospita dal giorno in cui ha scoperto di essere stato colpito da quella “maledetta malattia” – così la definisce – chiamata Sla. È un racconto schietto quello di Rabuffi, in cui non vi è timore di mascherare sentimenti come rabbia o sofferenza, ma, proprio perché lontano da ogni retorica, è in grado di colpire, di emozionare e di ispirare.

“MI E’ CADUTO IL MONDO ADDOSSO”

“I medici me lo hanno spiegato con parole semplici e mi è caduto il mondo addosso – si legge scorrendo le pagine del libro in cui Rabuffi ripercorre le tappe del suo calvario -, sono 12 anni che vado spessissimo all’ospedale di Piacenza, ma le gravi malattie che ho mi lasciavano un po’ di libertà e ormai ci convivevo. Questa invece mi porterà via tutta la forza e la possibilità di fare qualsiasi cosa. Già altre volte sembrava arrivata la fine ma io sono ancora qui e voglio starci ancora un po’... così ho firmato il consenso per la tracheotomia”.
È stata proprio la ventilazione meccanica invasiva la prima dolorosa, ma fondamentale, scelta davanti alla quale è stato messo Rabuffi in quel giorno di fine gennaio dell’anno scorso. Il lungo tubo che dal collo lo collega alla macchina che gli consente di respirare lo “fa sentire un marziano o un robot”; la consapevolezza in quei momenti è che un nuovo viaggio sta per iniziare: “nel suo sguardo c’è di tutto, disperazione, paura, sfida, collera – è il punto di vista della moglie Ivana - da oggi questa sarà la nostra seconda casa”. Ma un viaggio così non può certo rimanere muto, deve essere raccontato, giorno dopo giorno, come un diario in cui trascrivere sensazioni, incontri, pensieri.
“Racconta com’è il Mimosa, come e con chi vivi, detto da protagonista diretto di questa esperienza ha un valore diverso da quello raccontato da altri – è la proposta che gli operatori fanno a Rabuffi - sei bravo a raccontare le cose, qui al Mimosa hai raggiunto traguardi inimmaginabili e hai conosciuto tutto quello che si fa in questo posto. Perché quando sei arrivato qui eri arrabbiato e spaventato e ci sono tante persone fuori da qui spaventate allo stesso modo all’idea di arrivare un giorno al Mimosa. Scrivi parlando a loro, scrivi parlando a te stesso prima di arrivare qui”.

“NOI NON CI ARRENDIAMO MAI”

I compagni di viaggio sono infermieri, dottori, psicologi, educatrici “persone che lavorano mettendoci anche il cuore oltre alla preparazione professionale. Anche quando fanno i lavori più semplici hanno sempre il sorriso sulle labbra – spiega Rabuffi nel suo libro - rispondono gentilmente e in modo professionale alle domande/richieste dei vari parenti e hanno una pazienza infinita”.
Ma tra loro ci sono anche gli altri pazienti, che magari, col tempo, diventano amici nonostante le differenze d’età: “Nelle mie prime uscite in carrozzina ho conosciuto un ragazzo di 32 anni, è qui per un incidente – racconta -. Nel reparto io sono il più anziano e lui il più giovane. Mi sorride e risponde con movimenti delle dita alle mie parole o alle mie strette sul braccio (se non ho voce). Ci aiutiamo a modo nostro. Penso che questa simpatia sia nata perché siamo simili, testardi, precisi e non ci arrendiamo mai”. Sono tanti altri i momenti che meriterebbero di essere raccontati, e ci sarebbe sicuramente molto altro da dire su Antonio Rabuffi, esempio di tenacia e voglia di vivere, volto reale che dimostra ancora una volta l’importanza di curare la persona, oltre la malattia.

Federico Tanzi

Pubblicato il 21 marzo 2019

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