La morte di Gesù
non è un fallimento
Dal Vangelo secondo Marco (9,2-10)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni
e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti
divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra
potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola,
Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui;
facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno,
se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte,
ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto,
se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa,
chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
La nostra vita e la ParolaIl monte. Abramo ed Isacco nella prima lettura, Gesù e tre dei suoi discepoli nel brano evangelico, salgono sul monte. Si pongono in alto, in un luogo dove le cose si vedono da un’altra prospettiva. La prospettiva con cui guardiamo le cose, le persone e gli avvenimenti è molto importante. La chiave di lettura in base alla quale valutiamo tutto ciò che sta sotto i nostri occhi ci porta a dare un giudizio che dipende proprio dal nostro sguardo, dal nostro modo di guardare.
Nel capitolo precedente del vangelo di Marco Gesù aveva rimproverato i suoi discepoli di aver occhi e non vedere, subito dopo aveva guarito un cieco, e ritornando da Cesarea di Filippo, dopo la professione di fede di Pietro, aveva cominciato “a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”. Tutto ruota attorno al modo di guardare la croce, il soffrire di Cristo e il rifiuto verso il quale sta camminando, che lo condurrà alla morte.
Sappiamo cosa pensa Pietro di questo percorso umiliante e, ai suoi occhi, fallimentare. Gesù sarà deformato e sfigurato dai colpi di coloro che hanno deciso di ucciderlo. Tutta l’idea di Messia che viene a salvare trionfando, vincendo come una bestia più forte di altre bestie, va in frantumi. Questo è un agnello che viene trafitto e versa il suo sangue, e così lava.
La luce. La trasfigurazione di Gesù è l’esperienza che i discepoli fanno per la quale è possibile avere uno sguardo capace di andare al di là della forma così come appare ai nostri occhi ciechi. Sul monte Gesù fa emergere ciò che è nascosto e che è il suo segreto: la sua gloria è il suo legame filiale con il Padre. Pietro aveva detto “tu sei il Cristo” ma il Padre, sul monte, dice altro “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!”. Quel “figlio amato” ricorda immediatamente Isacco: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami”.
Allora la croce, l’umiliazione, la morte di Gesù non è il fallimento, ma il luogo dove risplende l’amore del Padre e del Figlio: la luce è il Padre che dona il proprio figlio, e il Figlio che si consegna nella mani del Padre. Questa luce nessun uomo la può imitare o produrre: “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Questa luce si accoglie come un dono, come abbiamo ricevuto la veste bianca nel giorno del nostro battesimo. Non ci siamo lavati da soli, non ci siamo aggiustati con i nostri sforzi. Siamo stati lavati dal perdono che si è attuato nella morte e resurrezione di Cristo. La luce della resurrezione, la vittoria della misericordia splende in Gesù e, come riflesso, sui nostri volti.
Don Andrea Campisi