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Il giorno che viene

A confronto su giovani e fede

giovani

Leggendo le considerazioni di Alice, Matteo e dei fratelli Alberto e Federica (faccio riferimento all’articolo “La Chiesa? Ci sembra immobile”. La fede e la vita quotidiana: a confronto Alice Lombardelli e Matteo Lunati e i fratelli Alberto e Federica Marotta, su Il Nuovo Giornale, Numero speciale, 2023) rispetto alla loro esperienza di fede, mi ha colpito come siano riusciti a descrivere in modo disarmante e paradigmatico le fatiche e le speranze di quanti oggi ancora “credono e sperano”, soprattutto quelle dei giovani.

Parlo di fatiche facendo riferimento all’impegno che serve ad Alberto per portare avanti la sua fede in Dio in un tempo che ne ha dichiarato l’eclissi. Alberto parla del coraggio della fede, perché per quanto questa sia un dono, non è mai garantita. Chiede impegno e cura, soprattutto in un mondo in cui il processo di secolarizzazione ha relegato Dio ai margini della vita, e così tutta una serie di risorse simboliche umanamente condivise.
Ciò ha provocato una condizione endemica di incertezza e di esposizione costante al rischio, che a una lettura sociologica caratterizzerà la vita delle generazioni future.

Credere allora vuol dire andare controcorrente, dare fiducia al giorno che viene nonostante le sue opacità, prendere posizione dentro alla fragilità dei nostri vissuti e contrastare quella rassegnazione nichilista ormai pervasiva, per cui niente ha senso se non consacrarsi al godimento compulsivo. Il discorso capitalistico ha certamente contribuito a neutralizzare un ordine simbolico agonico - non sono solo le narrazioni religiose tradizionali a essere in crisi, ma anche quelle secolari‐illuministiche - sostituendo a queste un orizzonte antiumanistico e senza slanci ideali, certamente aperto alla trascendenza, ma di tipo digitale, cyborg, dove in fondo l’umano rischia di incontrare solo la replica virtuale di sé stesso.
Si tratta di quel fenomeno di spiritualizzazione del tecnologico per cui lo sviluppo velocissimo delle nuove tecnologie e la loro complessizzazione ha prodotto vere e proprie macchine dell’anima, o della coscienza.
Tutto ciò può essere considerato come una trasmutazione del religioso, uno slittamento dello spirito, una nuova gnosi (penso qui alle ultime frontiere della tecnologia, nello specifico a quello che viene definito Metaverso, uno spazio virtuale in cui le differenze con la realtà diventano quasi impercettibili: nel metaverso è possibile lavorare, incontrarsi, fare affari e acquistare beni).

A questo modo rarefatto e Meta-fisico che avanza fa da sponda Alice e chi come lei non si arrende e continua a scegliere implacabilmente il corpo a corpo con la concretezza del reale, uscendo da sé per incontrare l’altro. “Fa parte di me aiutare gli altri e mettere davanti il prossimo in tutti gli ambiti della mia vita”.
È così che si incarna silenziosamente, senza l’ossessione dei follower, quella postura mistico-solidale che è memoria narrativa e performativa della vicenda di Gesù. Si tratta della singolare sensibilità all’altro che fa uscire il soggetto dal proprio ripiegamento autoreferenziale e lo spinge a uno sguardo continuamente aperto sul mondo.
La discontinuità e la polifonia dei volti e degli sguardi ai quali ci si apre, la fraternità vissuta nella sua eccedenza, si rivela il luogo della Trascendenza. Il teologo J.B. Metz descrive questa apertura come un’esperienza di Dio, «quanto meno un “aver sentore di Dio”: Dio è il Dio sempre più grande, la possibilità sempre maggiore» (Metz alla “discontinuità che passa da volto a volto”, collega la formula dell’analogia elaborata dal Concilio Laterano IV dove si fa riferimento alla major dissimilitudo in tutte le immagini divine degli uomini).
La prassi della solidarietà che nasce dalla fede si caratterizza così anche in senso politico delineandosi come con-passione integrale, in altri termini come impegno per l’umano nel contesto della società.
Sarebbe da pensare il principio Agape come contronarrazione rispetto alle logiche predatorie e prepotenti: ogni volta che si incarna può accendere piccole e miracolose luci nel buio annunciando una rivoluzione gioiosa e costruttiva, politica ed esistenziale (Isabella Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, ed. Ponte alle Grazie). Non ne possiamo fare a meno.

Questi ragazzi si confrontano non solo con un mondo complesso e, utilizzando le parole del filosofo Edgar Morin, spesso anche spietato, ma anche con una Chiesa che non gode di ottima salute.
La Chiesa, arroccata così com’è dietro a mura difensive, spaventata e paralizzata davanti al novum che avanza, appare lontana anni luce dalle nuove generazioni e dalla possibilità di rappresentare un modello di comunità desiderabile e promettente per il mondo giovanile.
Nell’articolo intervista, Matteo parla di una chiesa “immobile, che si lascia passare il tempo addosso e non riesce a essere attraente”. Con un linguaggio forse meno teologico ma altrettanto incisivo e diretto, ha sintetizzato quello che il teologo J.B. Metz scriveva qualche anno fa: “La chiesa cattolica sembra essere cocciuta e coriacea come un elefante, e questo ormai in un duplice modo. Da un lato, essa coltiva - nonostante tutte le proclamazioni conciliari dell'aggiornamento della chiesa - una costituzionale diffidenza verso gli stimoli e i bisbigli del cosiddetto spirito del tempo. Ciò la fa apparire - e non in ogni caso a torto - come arretrata, non desiderosa e nemmeno capace di imparare, come una sorta di dislessica della scuola dell’Illuminismo e della modernizzazione. Tuttavia, più mortale del sospetto di risultare in questo senso inattuale, conta per la chiesa il sospetto di divenire semplicemente inutile grazie alla troppo zelante autosecolarizzazione” (J.B. Metz, Memoria Passionis, 176).

Metz descrive la chiesa come un pesante e lento pachiderma, chiusa dentro le mura difensive dell’ecclesiocentrismo.
Una condizione di fissismo identitario e di tradizionalismo immobile che finisce con il soffocare l’Alito sapiente che l’ha costituita e che geme per aprire il tempo nella fiducia e nella speranza.

Ed è proprio di speranza che i nostri giovani hanno bisogno.
L’articolo a cui faccio eco, tra l’altro, parla di ragazze e ragazzi che hanno trovato una loro collocazione, una casa, che per quanto fragile dà consistenza alla loro vocazione e al loro desiderio. Ma non è così per tutti, anzi a mio avviso, sono una minoranza quanti riescono a uscire dai recinti del mainstream per avventurarsi in altri spazi, magari discutibili, non per forza appartenenti al contesto cristiano e religioso, ma che traducono comunque il desiderio di senso, di profondità e di trascendenza.
Da anni mi confronto quotidianamente con tantissimi giovani, il loro entusiasmo per il futuro trasuda dai corpi e dai loro occhi, ed è contagioso, così come lo è però una sorta di spaesamento e di smarrimento che spesso li attraversa. Lo sanno, manca un racconto audace che li ispiri, mancano visioni e utopie praticabili, e avvertono che la narrazione dominante alla fine finisce per renderli sterili e soli.
Purtroppo mi sembra che davanti alla potenza Babilonica dell'unico - non sempre comprensibile per le generazioni precedenti - il sentimento di impotenza spesso sia quello che li prevarica.

Allora forse, la Chiesa e dunque tutta la comunità cristiana, se vuole “soffiare sul mondo”, se davvero desidera vedere i suoi figli profetare e avere visioni (Gioele 2, 28), se vuole essere un laboratorio di fiducia e di speranza, dove spezzare e condividere il pane per pensare e condividere progetti, utopie, processi nella prospettiva del Regno, deve essere disposta ad uscire da sé.
Non è in fondo questo l’appello incessante che papa Francesco sta lanciando fin dall’inizio del suo pontificato?
Appello che rischia di trasformarsi nell’ennesimo slogan senza verità e senza forza generativa se non trova il suo spazio concreto di attuazione.
L’uscita da sé del resto è la cifra stilistica del Nazareno. Ospitalità, rinuncia di sé, spossessamento, distacco, amore kenotico: sono tanti i modi per dire la singolarità di Gesù.
Per la Chiesa si tratta di osare un doppio decentramento, verso il mondo e verso Cristo, senza strategie utilitaristiche. Per lasciare semplicemente che lo spirito di fraternità si dia, così da promuovere una potente affezione per la ricostruzione delle comunità degli umani.

Il cambiamento auspicato da Alberto quando sostiene che “Per parlare alla gente va cambiato l’approccio e il linguaggio, mettendo in discussione posizioni troppo rigide che al giorno d’oggi risultano obsolete, senza però snaturarsi”, passa dunque per la porta stretta della Pasqua.
La Chiesa allora, ogni volta che è e sarà capace di dimostrare tale autenticità, è e sarà realmente a disposizione dell'uomo e di Dio per il giorno che viene.

Lamberto Breccia

Pubblicato il 20 luglio 2023

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  • In Cattedrale è stato ricordato il beato Secondo Pollo

    pollo

    Lunedì 26 dicembre il vescovo mons. Adriano Cevolotto ha presieduto la messa in Cattedrale a Piacenza nella memoria del beato Secondo Pollo, cappellano militare degli alpini. Vi hanno partecipato i rappresentanti delle sezioni degli Alpini di Piacenza e provincia e i sacerdoti mons. Pierluigi Dallavalle, mons. Pietro Campominosi, cappellano militare del II Reggimento Genio Pontieri, don Stefano Garilli, cappellano dell'Associazione Nazionale degli Alpini di Piacenza, don Federico Tagliaferri ex alpino e il diacono Emidio Boledi, alpino dell'anno nel 2019.
    Durante la Seconda guerra mondale, il sacerdote parte per la zona di guerra del Montenegro (Albania), dove trova la morte il 26 dicembre dello stesso anno, colpito da fuoco nemico mentre soccorreva un soldato ferito. 
    Originaio di Vercelli, fu beatificato il 24 maggio 1998 da papa Giovanni Paolo II. 

    Nella foto, il gruppo degli Alpini presenti in Cattedrale con il vescovo mons. Adriano Cevolotto.

    Pubblicato il 27 dicembre 2022

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