San Paolo ci aiuta a rendere grazie soprattutto per la nostra povertà, nel punto in cui mai avremmo immaginato di trovarci ma dove si sperimenta la viva presenza di Dio e dei fratelli. C’è un Paolo nuovo e molto umile in questa Lettura, cambiato rispetto ai tempi della gioventù in cui si mostrava fiero di veder massacrare i cristiani; ora riconosce di essere stato soccorso e sa di non bastare a se stesso. Il nuovo Paolo ha imparato a ricevere bontà dai fratelli e ne gioisce, non si considera più un superuomo. Così capita anche noi quando impariamo a tendere la mano e a riconoscerci bisognosi, mentre la società ci vorrebbe maestri e giudici di noi stessi. Non ci chiediamo dove ci pone la grazia di Dio in un certo momento oppure dove ci chiederebbe di restare, ma pretendiamo di esaudirci da soli, anche nella vita spirituale. Invece noi possiamo incidere sulla vita dell’altro, con una parola buona anche in una situazione di povertà.
Paolo ha imparato a riprendere e riconsiderare daccapo vecchie situazioni e per questo ci vuole umiltà. Paolo come Pietro rappresenta figure della gratitudine, che sanno consegnarsi al volere di Dio. Il messaggio è imparare ad accogliere l’altro e vedere che il Signore è in tutte le cose e in tutti noi. Quando noi realmente opponiamo resistenza all’aiuto fraterno? In quali circostanze rifiutiamo una mano tesa verso di noi? Permettere a qualcuno di aiutarci è questione di umiltà. Chiedere aiuto nelle varie situazioni della vita vuol dire sopportare di manifestare il proprio limite, la propria mancanza. Dio ci dà la forza anche di chiedere. Siamo nelle mani di Dio e così acconsentiamo che quelle mani si manifestino anche nei fratelli. È la storia che decide la nostra santità nella misura in cui sappiamo pacificarci e riconciliarci con Dio, grazie al nostro prossimo. Il Signore ci riconosce la forza di accettare le nostre debolezze e far sì che diventino un tramite per la comunione con gli altri. Quante volte i nostri rapporti s’intensificano proprio nelle situazioni di fatica o di malattia, diventando solidi e profondi se ci lasciamo penetrare dall’aiuto di un altro. Nasce così una vera vicinanza profonda, solo se siamo capaci di spogliarci e di donarci. Dio si consegna a noi in ogni Eucaristia. Chi c’è di più debole del Signore, chi più di lui mendica il nostro amore? Infatti, chi più di lui è umile? Sosteniamoci un esame di coscienza per ogni volta che abbiamo avuto la possibilità di chinare il capo e invece con il nostro orgoglio abbiamo allontanato chi ci cercava. Infinite volte abbiamo respinto gli altri perché abbiamo voluto fare da soli. Proviamo a vedere se abbiamo saputo vivere la debolezza come una grazia e non come un impedimento al nostro vivere. Il Signore ci chiede di vivere per lui, tutto il resto sarà dato in aggiunta.
Estratto dalla Lectio mattutina di madre Maria Emmanuel Corradini, abbadessa del Monastero benedettino di San Raimondo, del 7 novembre 2020, Lettera di san Paolo ap. ai Filippesi 4,10-19
A fine settembre erano 84.456. Si conferma il ritmo della flessione rispetto a un anno prima (-0,6 per cento), ma le imprese femminili tengono meglio delle altre (-0,7 per cento). Il calo del commercio al dettaglio (-2,7 per cento) e della ristorazione (-1,6 per cento) determinano la flessione delle imprese dei servizi (-0,4 per cento), nonostante la crescita delle attività immobiliari e di quelle professionali, scientifiche e tecniche. Contrazione in agricoltura e calo nella manifattura. Al 30 settembre scorso in Emilia-Romagna, le imprese attive femminili erano 84.456, pari al 21,2 per cento del totale delle imprese regionali, con una leggera flessione rispetto alla stessa data del 2019 (-510 unità, pari a un -0,6 per cento). È quanto risulta dai dati del Registro delle imprese delle Camere di commercio elaborati da Unioncamere Emilia-Romagna. In Italia, le imprese femminili sono aumentate in cinque regioni (Trentino-Alto Adige, Campania, Sicilia, Lazio e Puglia) e nel complesso sono lievemente diminuite (-0,2 per cento). L’incremento è stato più rapido in. Nelle regioni con le quali l’Emilia-Romagna più spesso si confronta, le imprese femminili risultano in lieve diminuzione in Lombardia (-0,3 per cento) e Veneto (-0,6 per cento), mentre subiscono una flessione in Piemonte (-0,7 per cento) e in Toscana (-0,8 per cento). La dinamica delle imprese femminili dipende, tra l’altro, dall’incidenza delle esigenze di auto-impiego, quindi dal livello del tasso di occupazione femminile, e dalla composizione settoriale dell’imprenditoria. In merito al primo fattore, l’esercizio dell’attività imprenditoriale come forma di auto-impiego tende a essere più consistente nelle aree dove il mercato del lavoro stenta ad assorbire l’offerta di manodopera. Sotto questo profilo, l’Emilia-Romagna si caratterizza per avere uno dei più elevati tassi di occupazione del Paese. Riguardo alla seconda causa, in un sistema economico particolarmente sviluppato come quello regionale, alcuni ambiti in cui è tradizionalmente presente una quota elevata di imprese femminili hanno un ruolo meno importante rispetto a quello che assumono per l’imprenditoria nazionale. Si tratta di alcuni settori di attività, quali il piccolo commercio al dettaglio e i servizi tradizionali, e tra le forme giuridiche delle imprese, delle ditte individuali. La flessione delle imprese femminili deriva dalla composizione di tendenze divergenti. Da un lato, quella leggermente positiva dell’insieme degli altri servizi escluso il commercio (+158 unità, +0,4 per cento) e delle costruzioni (+61 unità, +2,0 per cento), dall’altro, quella negativa derivante soprattutto dalla riduzione della base imprenditoriale nel commercio al dettaglio (-440 unità, -2,7 per cento), nell’agricoltura (-228 unità, -1,9 per cento) e, in misura decisamente minore, nell’industria (-1,1 per cento, -85 unità). Oltre che sul commercio, lo scotto della pandemia si riflette in particolare sulla ristorazione e sull’industria della moda, quindi sulle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento e sui servizi alla persona. Nonostante la leggera flessione delle imprese femminili, le società di capitale sono di nuovo notevolmente aumentate (+402 unità, pari a un +2,6 per cento), anche per effetto dell’attrattività della normativa delle società a responsabilità limitata semplificata. A fare da contraltare sono state una altrettanto rapida riduzione delle società di persone (-313 unità, -2,6 per cento) e una più lenta, ma più ampia, flessione delle ditte individuali (-1,1 per cento, -590 unità). Le cooperative e i consorzi fanno registrare una leggera contrazione (-0,7 per cento).
Un viaggio istruttivo e divertente nel mondo della tecnica e della scienza, realizzato via streaming, che da lunedì 16 novembre a venerdì 20 novembre coinvolgerà complessivamente 92 classi e oltre 1800 studenti delle scuole piacentine. Consistono in questo i cinque appuntamenti che compongono il ciclo di web conference intitolato “Tecnica: sviluppo sostenibile e resilienza”: l’evento, organizzato dalla Provincia di Piacenza con la collaborazione di Enaip, è inserito nell’ambito dell’edizione 2020 del Festival della Cultura Tecnica, dedicata a “Sviluppo sostenibile e Resilienza”, che sta coinvolgendo anche il nostro territorio. Al primo dei cinque appuntamenti, che si è svolto questa mattina in videoconferenza, hanno preso parte una ventina di classi, per circa 400 dei 1800 studenti coinvolti in totale: studentesse e studenti delle scuole secondarie di secondo grado hanno proposto ad alunne e alunni delle scuole secondarie di primo grado diversi video, che hanno mostrato una vivace serie di progetti, applicazioni, invenzioni e attività realizzate nei diversi cicli di studi. Ad ogni filmato è seguito il dibattito dal vivo tra i giovanissimi di diverse età e i loro docenti, reso possibile attraverso i collegamenti - a cura di Enaip - realizzati tramite la regia ospitata dalla sede della Provincia di Piacenza. Dimostrazioni, giochi ed esperimenti hanno offerto l’occasione per capire come tecnica, tecnologia e scienza possano contribuire a fornire risposte concrete, anche in tempo di pandemia, alle esigenze della collettività e dello sviluppo sostenibile delineato dalla “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” delle Nazioni Unite. Il ciclo di web conference coinvolge Liceo Gioia, Liceo Respighi, Liceo Colombini, ISII Marconi, IS Romagnosi, IS Marcora, Omnicomprensivo di Bobbio, Polo Volta, Polo Mattei, IC Gandhi e Tutor, Endofap, Ecipar, Tadini e IAL.
Domenica 15 novembre, nella chiesa di San Nicolò, decine di avisini si sono riuniti in preghiera per rendere omaggio ai soci Avis defunti a Piacenza e Provincia nel 2020 e ai loro famigliari. L’iniziativa, condizionata dalle misure di distanziamento sociale, è stata promossa, come ogni anno, dalla Sezione Avis di San Nicolò-Rottofreno-Calendasco. Quarantaquattro i volontari ricordati, la metà dei quali deceduti per Covid, in una cerimonia religiosa molto partecipata a livello emotivo. A celebrare la messa, don Fabio Galli; all’interno della chiesa era stato posto il labaro di Avis Provinciale Piacenza, in rappresentanza delle 40 sedi comunali presenti nel nostro territorio. Quest’anno la commemorazione si è limitata alla funzione ecclesiastica e a brevi quanto sentite allocuzioni da parte del Presidente dell’Avis Comunale di San Nicolò-Rottofreno-Calendasco, Pierluigi Zanotti, e dei sindaci di Rottofreno e Calendasco, Raffaele Veneziani e Filippo Zangrandi. Presenti anche il Maresciallo della Stazione dei Carabinieri di San Nicolò, Vincenzo Russo e il Comandante della Polizia locale, Paolo Costa. “In epoca pre-Covid, erano centinaia le persone a partecipare e ogni Comunale portava il proprio emblema”, nota Pierluigi Zanotti. Cancellato anche il corteo dopo la messa verso il cimitero dove venivano solitamente poste corone di fiori intorno al monumento dell’Avis. Quest’anno solo il presidente dell’Avis locale, i sindaci e i rappresentanti delle Forze dell’Ordine hanno portato il cesto di fiori, offerto dalla Comunale di Piacenza città, ai piedi della stele dell’Avis. Dopo le preghiere, a prendere la parola per primo è stato Pierluigi Zanotti. “Non potevamo rinunciare ad un momento così importante, che celebriamo da quasi 60 anni, per ricordare i nostri fratelli della provincia che ci hanno lasciato. Quest’anno la nostra comunità è stata duramente colpita, abbiamo perso degli ex donatori, molti familiari di donatori e tanti collaboratori. Per noi erano amici, padri, madri, marito e moglie. Erano un pezzo importante della nostra vita, parte del nostro cuore e se ne sono andati in silenzio e nella solitudine”. Il Sindaco di Rottofreno, Raffaele Veneziani ha invece sottolineato il significato profondo della cerimonia, considerando le circostanze attuali. “Oggi ci stringiamo alle famiglie dei defunti. La pandemia ci ha messo di fronte all’evidenza di quanto siamo interdipendenti come comunità. Di come è necessario rinunciare a certe abitudini, limitare certi comportamenti per il bene comune”. Filippo Zangrandi, Sindaco di Calendasco, ha chiuso gli interventi con un messaggio di speranza. “E’ una giornata dolorosa che però rafforza i legami comunitari. Non dobbiamo fermarci al ricordo di chi ha dedicato la sua vita al dono. E’ nostro dovere cercare di prenderci cura di noi stessi, di costruire un futuro migliore, di ripartire da questo lutto per riflettere sulla società che vogliamo: più giusta, generosa e altruista”. La commemorazione si è chiusa con la lettura dei nomi dei 44 volontari Avis defunti nel 2020. Un gruppo ristretto ha infine deposto i fiori sulla lapide del cimitero dedicata ai defunti Avis.
L’11 novembre, festa di San Martino, ricorreva la Giornata delle cure palliative. Il termine “palliativo” prende il nome da “pallium”, cioè mantello, e si riferisce al famoso “mantello di San Martino”, di cui il Santo si sarebbe privato per “rivestire” un povero, sofferente, incontrato per strada. Le cure palliative hanno proprio il significato di “ricoprire”, “prendersi cura” della persona sofferente, accogliendo tutti i suoi bisogni, fisici, psicologici, sociali, spirituali. Più che curare la malattia, le Cure Palliative si prendono cura della “persona malata”, nella sua globalità, accogliendo entro questo ampio mantello anche la sua famiglia, altrettanto ferita e malata.
La pandemia e lo scontro tragico con la malattia Durante la pandemia abbiamo avuto modo di vedere, purtroppo in maniera tragica, cosa significhi curare la malattia e non la persona. C’è stata, e c’è tuttora, un’emergenza straordinaria, ma nella gestione di questo tempo le Cure Palliative sono state lasciate da parte, hanno avuto, tranne che in pochi casi, un ruolo marginale. Ci si è attrezzati e si è gestita l’organizzazione sanitaria con l’obiettivo di curare la malattia, non la persona malata. Per questo la pandemia sta lasciando dietro di sé una sofferenza enorme, che ha bisogno di consolazione, una consolazione che è mancata sia durante che dopo il percorso di malattia di tantissime persone.
Tenere la mano del malato Mi hanno colpito, in questi giorni, le parole di un componente del complesso dei Pooh, che hanno recentemente perso il loro batterista, Stefano D’Orazio, a causa del COVID. Il dolore più grande, diceva, è il pensiero che Stefano se ne sia andato da solo, senza nessuno che gli potesse stare vicino, tenergli la mano, “accompagnarlo” in questo suo ultimo viaggio. Ecco, le cure palliative sono questo accompagnamento, sono questo “tenere la mano”, sono questa presenza, questa vicinanza. Il palliativista “vede”, riesce a cogliere la sofferenza del malato, apre le porte della relazione, della consolazione, vede prima di tutto la persona malata, e se ne fa carico.
Le cure palliative nella Lettera “Samaritanus Bonus” Come riporta la recente e bellissima Lettera “Samaritanus Bonus” della Congregazione per la Dottrina della fede, “le cosiddette cure palliative sono l’espressione più autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura, il simbolo tangibile del compassionevole stare accanto a chi soffre. Esse hanno l’obiettivo di alleviare le sofferenze nella fase finale di malattia e di assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano, dignitoso, migliorando, per quanto possibile, la qualità della vita e il benessere complessivo”.
Il ruolo della famiglia e gli hospice Nella cura della persona in fase avanzata di malattia è centrale il ruolo della famiglia, che va sostenuta ed aiutata, perché anch’essa profondamente sofferente. La famiglia, nelle cure palliative, costituisce un’unica “Unità di cura” con il malato. E, quando la famiglia non ce la fa più, sia per motivi sanitari, a causa di sintomi difficilmente gestibili a domicilio, sia per motivi sociali, per il gravoso carico assistenziale, ecco la necessità degli “Hospice”, luoghi dove accogliere i malati nella fase finale della vita assicurando loro una cura e un’attenzione dignitosa fino alla morte. Tali strutture, recita la “Samaritanus Bonus”, “si pongono come un esempio di umanità nella società, santuari di un dolore vissuto con pienezza di senso”.
Gli hospice e la Londra degli anni ‘60 Il movimento Hospice inizia a Londra, negli anni ’60, per l’illuminazione di una persona straordinaria, Dame Cicely Saunders, con una forte motivazione cristiana che sollecita una presenza che si fa carico del dolore, lo accompagna e lo apre ad una speranza affidabile. Nel primo Hospice aperto a Londra, il “Saint Christopher Hospice”, tutte le stanze erano progettate in modo circolare, e al centro c’era la Cappella, con la perenne presenza del Santissimo, come a significare che in questa Presenza, nel Mistero di Cristo morto e Risorto, era racchiuso il senso dell’umana sofferenza.
Le parole del cardinal Bassetti: l’eucaristia al centro della vita A questo proposito mi ha colpito la lettera che il card. Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha inviato alla sua diocesi di Perugia poco prima di essere trasferito presso l’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, dove si trova attualmente ricoverato per aver contratto il COVID. In questa lettera il Cardinale afferma: “Era necessaria questa esperienza di malattia per rendermi conto di quanto siano vere le parole dell’Apocalisse in cui Gesù dice all’angelo della Chiesa di Laodicea: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap3, 20). L’eucarestia, soprattutto in questo periodo difficile, non può essere lasciata ai margini delle nostre esistenze ma dev’essere rimessa, con ancora più forza, al centro della vita dei cristiani. Nell’eucarestia Gesù rinnova e riattualizza il suo sacrificio pasquale di morte e risurrezione, ma la Sua presenza non si limita a un piccolo pezzo di pane consacrato. Quel pane consacrato trascende dallo stesso altare, abbraccia tutto l’universo e stringe a sé tutti i problemi dell’umanità, perché il corpo di Gesù è strettamente unito al corpo mistico che è tutta la Chiesa. Non c’è situazione umana a cui non possa essere ricondotta l’Eucarestia…”
Le domande di fronte alla malattia Un Hospice che si ispira ai valori cristiani deve avere un’attenzione costante al sostegno, alla cura, non solo dei sintomi fisici o psicologici, ma anche alla sofferenza spirituale, alla domanda di senso che sempre la malattia, e specialmente una malattia ad evoluzione infausta, porta con sé: “Perché a me?” Cosa ho fatto di male?” Che senso ha la vita? Perché esiste il dolore, la malattia, la morte?” Ancora la “Samaritanus Bonus” dice: “di fronte alla sfida della malattia e in presenza di disagi emotivi e spirituali in colui che vive l’esperienza del dolore emerge, in maniera inesorabile, la necessità di saper dire una parola di conforto, attinta alla compassione piena di speranza di Gesù sulla Croce […] nella Croce di Cristo sono concentrati e riassunti tutti i mali e le sofferenze del mondo, male fisico, psicologico, morale, spirituale”. Coloro che “stanno” attorno al malato non sono, né “devono” essere solo testimoni, ma “segno vivente” di quegli affetti, di quei legami che permettono al sofferente di trovare su di sé uno sguardo umano capace di dare senso al tempo della malattia; perché, nell’esperienza del sentirsi amati, tutta la vita trova la sua giustificazione. L’esperienza “vivente” del Cristo sofferente significa consegnare agli uomini d’oggi una “speranza” che sappia dare senso al tempo della malattia e della morte, contro la “disperazione” che può assalire le persone sofferenti che si trovano davanti ad una prova così grande.
Il dolore è sopportabile se c’è la speranza Il dolore è sopportabile esistenzialmente soltanto laddove c’è la speranza. Quindi, per quanto così importanti e cariche di valore, le cure palliative non bastano se non c’è nessuno capace di “stare” accanto al malato testimoniandogli questa speranza che egli ha profondamente maturato dentro di sé. Dice infine ancora questa bellissima Lettera: “anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare c’è ancora molto da fare, perché lo «stare» è uno dei segni dell’amore e della speranza che porta con sé. L’annuncio della vita dopo la morte non è un’illusione o una consolazione, ma una certezza che sta al centro dell’amore, che non si consuma con la morte”. Per questo gli Hospice che si ispirano ai valori cristiani devono avere operatori capaci di essere testimoni “credibili” dell’amore che sa dare una speranza e un significato anche all’esperienza più terribile che un uomo possa fare, quella di una sofferenza di un dolore a cui non riesce ad attribuire un significato.
Roberto Franchi
Medico palliativista e componente dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della salute
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