Il Municipale ha aperto la stagione del 220º con Otello, un dramma lirico in quattro atti, libretto di Arrigo Boito, musica di Giuseppe Verdi, liberamente (ma neanche troppo) tratto da Otello di Shakespeare.
Il commento di Andrea Bricchi, imprenditore di Castel San Giovanni appassionato di lirica.
Un vero capolavoro
È una delle mie cinque opere preferite, di quelle che potrei cantare dalla prima all’ultima nota, dalla prima all’ultima parola, in tutte le parti.
È un capolavoro, straordinario, anche dal punto vista storico, perché unisce Rossini (l’ha scritta all’inizio dell’800) a Verdi (5 Febbraio 1887), passando, con un volo pindarico, attraverso Donizzetti, che scrisse Caterina Corner (Cornaro), nel 1844. Fu colei che cedette Cipro a Venezia. (Grazie a Fulvio Venturi per avermelo fatto notare). Praticamente ci permette di vedere tutta l’evoluzione musicale del XIX secolo, da quando anche i drammi erano codificati in musiche piuttosto classiche e poco mobili a quando erano già colorati sui sentimenti e le emozioni dei personaggi, quasi cinematografici, quasi colonne sonore.
Tratto da Shakespeare, magnificato da Verdi, ma Boito è un genio assoluto e, se possibile, la migliora.
Il compositore, piacentino atipico, è la musica personificata e, ormai anziano, dipinge uno scenario molto scuro, quasi tetro, in certi passaggi, con personaggi tratteggiati e estremamente umani, che passano dal superomismo alle più grette miserie dell’animo. Alcuni studiosi hanno parlato, specie in passato, di influenze wagneriane e di Ponchielli, però io sono più propenso, come tanti del resto, a vedere una naturale evoluzione verdiana, da Don Carlo ad Aida, attraverso il secondo Boccanegra e la Messa da Requiem. Bisogna poi pensare che Verdi viveva nel mondo reale e subiva, come tutti, il fascino e l’influenza di chi gli stava attorno. Il baritono Victor Maurel, per esempio, gli piaceva moltissimo e nessuno mi toglie dalla testa che Jago sia stato ritagliato su di lui, come un abito sartoriale.
Il ruolo della musica
Non c’è mai soluzione di continuità armonica, mai chiusura delle scene, non c’è quello slancio tipico del primo Verdi, un certo modo di servirsi dello zumpappà che costruiva in tre quarti anche scene crudissime. Qui la musica è un caleidoscopio, un continuo ondeggiare, proprio come il mare in tempesta, anche attraverso lo varie scene. Mascagni metterà il mare in tanti suoi componimenti, ma solo pochi anni dopo, quando giovanissimo scrive la sua Cavalleria Rusticana, nell’intermezzo utilizza l’arpa per dare quel dondolio tipico della culla e del mare. E ho sempre pensato che quel tratto, così legato all’andirivieni dell’acqua, che ritroviamo anche nel ciclo della vita, nel giorno, nella notte, nell’andare del tempo, nel bene e nel male, in fondo venisse un po’ anche da Otello.
La tempesta iniziale è simbolica, come il battesimo, si comincia da lì. Anno zero. Tutto è splendente, dalla morte alla vita. Siamo trionfanti insieme all'eroe, assistiamo a una specie di una specie di trasformazione, di nuovo inizio. Un superuomo è davanti a noi. Invincibile. Lui stesso dice: “Nostra e del Cielo è gloria!”. Kunde qui è perfetto, la fa magistralmente, così come, pur per altri versi, eseguirà tutto il finale.
L’organo dall’inizio è un tremolo, nel registro di contrabbassi e timpani. I fiati tutti hanno accordi, chi nel tempo, chi in sincope.
Le trombe tengono fisso un sol (sol - si bemolle dall’inizio a quando interviene il coro), a simulare il metallico, ossessivo, ansiogeno riverbero dei tuoni. E da questa geniale tempesta parte una tessitura senza chiusure, in continuo movimento, che attraversa tutta l’opera, senza mai fermarsi, come dicevamo prima.
Gli archi in Otello sono maturi, sono pura essenza musicale. Non danno quelle coltellate che arrivano al cuore in Traviata e Rigoletto, ma vibrano sotto alla scena, la sorreggono, come le arcate di un ponte.
I personaggi sembrano cesellati nel contesto, nelle loro debolezze, paure, passioni… La metrica di Boito suggerisce a Verdi la scansione ritmica. Geniale è dire poco. È l’Opera, nella sua massima essenza.
Desdemona è eterea, quasi divina, quasi perfetta. La canzone del salice e poi la sua Ave Maria, una delle più belle mai scritte, la fanno apparire in tutto il suo immacolato candore. Ma è lei stessa a dirlo, duettando con il moro: “Ed io t’amavo per le tue sventure e tu m’amavi per la mia pietà”. Desdemona è l’incarnazione del Bene. E, per contro, Jago è il male. Il più grande, demoniaco cattivo di tutti i tempi, che racchiude in sé tutte le più squallide miserie: “Credo in un dio crudel che m’ha creato simile a sé e che nell’ira io nòmo". Vile, scellerato, fangoso: “Il mal ch’io penso e che da me procede pe’l mio destino adempio”. Pe’l mio destino. Come in tutto Verdi, come in letteratura troviamo in Verga, per esempio, o nel cinema in tante opere in cui l’eroe è invincibile o perdente per scelta divina, così anche Jago è cattivo perché è nato così, perché non può far altro. Luca Micheletti, lo dico senza tema di smentita, è uno dei migliori Jago che abbia ascoltato. E io Otello l’ho ascoltato tanto, ma tanto, ma tanto, ma tanto…
La follia di Otello
Poi ci sono alcuni personaggi senza troppo “valore”, che circondano questi due estremi e, soprattutto, il grande protagonista, Otello, che passa da superuomo ad assassino. Anzi, a femminicida! Mai opera fu più attuale, se pensiamo a quei fatti tristemente così attuali. Qui avviene un femminicidio, cruento, terribile e avviene perché nella bassezza dell’animo umano si celano il dolore e il male. Da sempre. E poi Otello capisce, realizza, e si suicida, tornando, con musica e parole, alla scena più dolce, dell’amplesso iniziale, dove lui si diceva giunto al massimo possibile gaudio dell’anima: l’amore dopo il trionfo. E ora pure dopo la morte.
Otello impazzisce. Non è più guidato dal senno. Nella voce il tenore deve avere in ogni momento slancio militaresco, piglio da condottiero, poi odio e follia assieme, e amore, sempre amore. Tipico di Shakespeare. Pensiamo anche ad Amleto. Kunde fa Otello a modo suo, ma ha senso. Sceglie di farlo così, non perché sia costretto, ma perché lo legge così.
Non butta fuori la voce come fosse sempre una diana squillante sul campo di battaglia. La usa con colore per dar senso ai sentimenti più belli, ma che soccombono in lui con dolore.
La famosa voce verdiana qui è particolare, direi quasi originale, specie sui bassi.
“La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi è di coniugare la più leale e condivisa partecipazione al dialogo interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo”. Con questa citazione del cardinale Raniero Cantalamessa si potrebbe cercare di riassumere il senso e lo scopo del libro “Verità e dialogo: contributo per un discernimento cristiano sul fenomeno dell’Islam”, scritto dal prof. Roberto Caprini e presentato di recente al Seminario vescovile di via Scalabrini a Piacenza grazie alle associazioni Confederex (Confederazione italiana ex alunni di scuole cattoliche) e Gebetsliga (Unione di preghiera per il beato Carlo d’Asburgo).
Conoscere l’altro
L’autore, introdotto dal prof. Maurizio Dossena, ha raccontato come questa ricerca sia nata da un interesse personale che l’ha portato a leggere il Corano per capire meglio la spiritualità e la religione islamica, sia da un punto di vista storico sia contenutistico. La conoscenza dell’altro - sintetizziamo il suo pensiero - è un fattore fondamentale per poter dialogare, e per conoscere il mondo islamico risulta di straordinaria importanza la conoscenza del Corano, che non è solo il testo sacro di riferimento per i musulmani ma è la base, il pilastro portante del modus operandi e vivendi dei fedeli islamici, un insieme di versi da recitare a memoria (Corano dall’arabo Quran significa proprio “la recitazione”) senza l’interpretazione o la mediazione di un sacerdote. Nel libro sono spiegati numerosi passi del Corano che mettono in luce le grandi differenze tra l’islam e la religione cristiana, ma non è questo il motivo per cui far cessare il dialogo, che secondo Roberto Caprini “parte proprio dal riconoscere la Verità che è Cristo. Questo punto fermo rende possibile un dialogo solo sul piano umano che ovviamente è estremamente utile per una convivenza civile, ma tenendo sempre che è nella Chiesa e in Cristo che risiede la Verità”.
Le differenze tra le due religioni
Anche il cardinal Giacomo Biffi, in un’intervista nel 2004, spiegò come il dovere della carità e del dialogo si attui proprio nel non nascondere la verità, anche quando questo può creare incomprensioni. Partendo da questo il prof. Caprini ha messo in luce la presenza di Cristo e dei cristiani nel Corano, in cui sono accusati di aver creato un culto politeista (la Santissima Trinità), nonché la negazione della divinità di Gesù, descritto sempre e solo come “figlio di Maria”. Queste divergenze teologiche per Caprini non sono le uniche differenze che allontanano il mondo giudaico-cristiano da quello islamico: il concetto di sharia, il ruolo della donna e la guerra di religione sono aspetti inconciliabili con le democrazie occidentali, ma che non precludono la possibilità di vivere in pace e in armonia con persone di fede islamica. Sono chiare ed ampie le differenze religiose ma è altrettanto chiara la necessità di dover convivere con persone islamiche e proprio su questo punto Caprini ricorda un tassello fondamentale: siamo tutti uomini, tutti figli di Dio. E su questo, sull’umanità, possiamo fondare il rispetto reciproco e possiamo costruire un mondo dove, nonostante le divergenze, si può convivere guardando, però, sempre con certezza e sicurezza alla luce che proviene dalla Verità che è Gesù Cristo.
Francesco Archilli
Nella foto, l’autore del libro, prof. Roberto Caprini, accanto al prof. Maurizio Dossena.
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