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L'insegnamento e l'eredità di don Milani in un convegno il 21 a Milano

Scuola di barbiana don lorenzo milani e alunni in aula

«Don Milani, l’educatore. Eredità e prospettive. Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo» è il tema di una due giorni dedicata alla figura di don Milani e al suo insegnamento: la prima parte si è svolta il 14 ottobre,  la seconda è in programma il 21 ottobre dalle 9.30 alle 13. L'iniziativa è a cura dell'Istituto Superiore di Scienze religiose di Milano in collaborazione con l'associazione Isacco.
Il secondo apuntamento del convegno ha per tema "Eredità e prospettive”. 
Intervengono la prof.ssa Barbara Rossi (ISSR Milano) su “La didattica che si prende cura. Il compito educativo per don Milani”;
“Don Lorenzo Milani e quell’idea di scuola dove si impari a «prendere parola»” è il tema trattato dal prof. Marco Moschetti (ISSR Milano); mentre il prof. Enrico Garlaschelli (ISSR Milano e Mantova) parlerà di “Don Lorenzo Milani e l'elogio pedagogico dello scarto”.
L’insegnamento di Don Lorenzo Milani a Barbiana ancora divide e fa discutere. Il convegno si assume il compito di interpretare un’esperienza che, al di là dei modelli e delle teorie, ci interroga profondamente sulla natura dell’educazione e sulle sfide che l’insegnante affronta quando decide di convertire la sua esistenza ad un compito educativo.

L'insegnamento di don Milani

Tanto si è discusso, nel Centenario della nascita, sulla figura e l’opera di don Lorenzo Milani, spesso riprendendo alcune sue celebri affermazioni per svilupparle a tutto campo e al servizio di svariate bandiere. Don Lorenzo Milani è diventato così il pretesto per parlare della scuola del merito come delle bocciature. Lo stesso don Milani si lamentava dei ritratti che sortivano su di lui dal dibattito culturale dei suoi tempi: “Immagini stereotipate”. Per questo si teneva ben lontano dai cosiddetti salotti culturali, spesso destinati all’autoreferenzialità. Con questo suo atteggiamento, sembra invitarci a confrontarsi con la sua vita piuttosto che con le nostre idee: il don Milani vivente che ci spiazza e ci incita con le sue espressioni aspre e mai accomodanti. Una “persona antipatica” che, nonostante la raffinata educazione ricevuta in famiglia, desidera essere “snobbato” dal mondo culturale per riconoscersi come un semplice prete di campagna che non vuole fare discorsi più grandi di lui.
Eppure scrive e ci tiene alla scrittura. Contesta una scuola che istruisce i ragazzi sui soliti libri, eppure egli stesso si prende cura della sua scrittura e ci tiene a pubblicare il suo libro: “parto della sua intelligenza”. Sembra quasi rivolgere anche a se stesso quello che vuole offrire ai giovani: “l’arma del pensiero e della parola”. Forse la sua scrittura si può intendere come una continua incitazione finalizzata a combattere la naturale chiusura e astrazione che sembra avvolgerci quando pensiamo e scriviamo perdendoci dentro noi stessi, invece di guardare a quello che sta accadendo. È “scrittura collettiva” perché non cede al manierismo letterario dell’espressione soggettiva creata davanti allo specchio. “Il guaio dei “cittadini” - lamenta - è che credono di essere loro il mondo, mentre non ne sono che piccola spregevole frazione”. Questo “dà la misura di quanto i ‘cittadini’ vivano fuori dal mondo”. Il classismo a cui don Milani si riferisce non è primariamente un fatto sociale ma un modo di essere, di parlare in modo autoreferenziale lasciando fuori gli altri e quello che annunciano: di produrre con i nostri discorsi un “centro” che immediatamente genera delle periferie. Il senso del suo scrivere è di aderire ed esprimere in modo diretto e immediato la sua esperienza, per non svuotarsi delle situazioni concrete che ha vissuto, quasi a ricrearne la forza e l’urgenza, come a farcela rivivere impedendoci di dimenticarla. Le periferie sono dunque il luogo della dimenticanza e la parola che usa don Milani serve a ricordare, o, più esattamente a non dimenticare, perché anche nel ricordo ci si può estraniare: “Ci vuole una parola dura, che spezzi o ferisca, cioè una parola concreta”.

La sua eredità

L’eredità di don Milani ha dunque la forma della testimonianza, senza la quale ogni suo discorso diventa volubile e volatile sulle labbra degli interpreti. Egli contesta il gesto filantropico del “cittadino” e del “borghese” che vuole togliere qualche contadino dalla povertà, e non permette che la sua esperienza a Barbiana venga “catturata” da qualche campagna ideologica. Non gli interessa primariamente denunciare un fatto sociale o politico, ma essere umanamente autentico, come prete e insegnante, con le persone che ha incontrato: “Ora, sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e sacerdote…”. La sobrietà dell’atteggiamento indica quel senso del limite senza il quale l’umano affonda nell’osceno che contraddistingue l’odierno universo della comunicazione, anche quando si dice “culturale”.
Don Milani desidera anzitutto stare con i suoi ragazzi; non svolgere un compito ma vivere con loro: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola (…) sbagliano la domanda (…) bisogna essere”. Dunque ognuno vorrebbe scoprire “il segreto di Barbiana”, e tanti chiedono a don Milani di esplicitare un metodo; guardano alla sua esperienza, allora come oggi, per estrapolarne una formula. Don Milani non lo fa. Eppure “il segreto” di Barbiana esiste, così come il “motivo profondo” che spinge e accompagna don Milani. Tuttavia non è un segreto traducibile in formule. “Non si può spiegare in due parole come bisogna essere”. Il segreto di Barbiana sta forse in questa rivoluzione lessicale che dobbiamo praticare: è un segreto non traducibile in competenze, programmazioni, valutazioni; un segreto che parla ancora di un “motivo” per convertire la propria vita nell’insegnamento.
È sintomatico che la parola “motivo” tenda a sparire dal nostro lessico. Forse perché è troppo ‘vago’ per essere didatticamente programmabile e non è un’ ‘abilità’ utile. Quello che spinge don Milani è un “motivo profondo” che ci impedisce di tradurre il significato di “I care” con una sorta di “impegno”, quasi fosse un “buon proposito” che, pensiamo, non riesca a restituire la misura dell’umano incontrato da don Milani, quando diventa espressione di buone intenzioni e buoni sentimenti esibiti da coloro che allora come oggi visitano la sua scuola. In questo modo si producono solo gli stessi salotti culturali che hanno sollevato il sarcasmo di don Milani, trasformando lo stesso don Milani in un “prete da salotto, cioè da cenacolo mistico-intellettual-ascetico”, per smettere di pensarlo per quello che più volte egli stesso ripete di volere essere considerato: un prete di montagna.

La scuola di Barbiana

Il segreto della scuola di Barbiana non sarebbe comprensibile al di fuori di questa scelta di vita, del suo desiderio di non impartire lezioni ma di vivere insieme alle persone che ha incontrato, in un tale abbassamento per cui la parola ‘condivisione’ risulterebbe ancora inadeguata, quando pensiamo a don Milani che scrive a lume di candela perché il gas è finito, con una rivoltella vicino per proteggersi da qualche parrocchiano. La condivisione è riservata a coloro che “hanno il cuore proteso verso i poveri, ma soffrono pene indicibili perché fra i poveri e loro c’è un muro di distanza”, perché “con loro hanno solo giocato, non se li sono costruiti con le loro mani dall’interno, dal più profondo, come si fa quando s’è fatto scuola”. Il segreto della scuola di Barbiana sta forse nella trasformazione di don Milani da ricco borghese a semplice uomo del popolo, singolo individuo perduto tra gente che non solo non ha più tradizioni, ma non si riconoscere neppure in un cimitero che raccolga e protegga i propri affetti.
Quest’umana dispersione in cui don Milani sceglie di vivere, prenotandosi la tomba, ci impone una particolare sorveglianza sull’uso magari svagato e afffettato che possiamo fare del celebre motto in cui tanti riconoscono la sua opera: l’espressione “I care” quale opposto del “me ne frego”.
Non ci sembra certo un imperativo categorico imposto quale regola d’azione. A don Milani non interessa universalizzare, quanto singolarizzare, condividere pienamente l’umanità che trabocca in quelle terre desolate, perché in verità quei ragazzi sono “ricchi di doni” di cui lui si dichiara sprovvisto. La grandezza di don Milani ci sembra risiedere proprio nel fatto che questa sua testimonianza non è convertibile in manifesti e slogan, essendo esattamente ed essenzialmente la denuncia di ogni atteggiamento pretenzioso ed effimero.
Quale migliore insegnamento in un mondo che vive di parole che non comunicano e di interlocutori fittizi? Uscire da se stessi, uscire dalla bolla che ci creano attorno, imparare non solo ad osservare come spettatori interessati e irresponsabile, ma a farsi incidere, ferire dalla realtà per riconquistare quella dimensione umana che solo nel piccolo, nel marginale, nelle pieghe del quotidiano si fa intravedere. L’insegnante, forse, è proprio colui che sa farlo, e il ‘segreto’ di cui ci parla don Milani è, semplicemente, quello di diventare insegnante.

Nella foto, don Lorenzo Milani in aula nella scuola di Barbiana.

Pubblicato il 16 ottobre 2023

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