Menu

«Guardarti, Signore»,
il secondo passo della Quaresima 2020

2occhiomuro

Per guardare occorre fermarsi, concentrarsi, essere attenti, che poi significa tendere verso qualcosa. Questa parola, attenzione, è densa e misteriosa.
Recupero un pensiero della filosofa Simone Weil quando scrive ne “La condizione operaia” che “l’attenzione è la sola facoltà dell’anima che dia accesso a Dio”.
Non l’attenzione discorsiva, fondata sulla ragione, ma un altro tipo di attenzione che Simone definisce “intuitiva” che “nella sua purezza è l’unica sorgente di un’arte perfettamente bella, di scoperte scientifiche veramente luminose e nuove, della filosofia che va veramente verso la saggezza, dell’amore del prossimo veramente caritatevole; rivolta direttamente verso Dio, essa è la vera preghiera”.

È uno sguardo intelligente, capace di entrare nelle cose, di assumerle per coglierne il senso. Intelligere deriva da intus legere: andare dentro, andare a fondo, non fermarsi alle apparenze. In effetti le apparenze possono ingannare.

Se vedo la croce da cui pende un uomo lacerato, con una corona di spine, può assalirmi uno stato di sconforto, un senso di abbandono. Pensavo che con te avremmo vinto, che con te ce l’avremmo fatta e invece tu sei lì, sconfitto, attaccato a un legno.

Quale consolazione può venire da questa desolazione?

Capire la Passione e la Morte di Gesù è difficile, tanto quanto lo è capire le mille tragedie che colpiscono l’umanità, i bambini della Siria, i migranti morti in mare, gli anziani soli e impauriti, le famiglie in cerca di una casa respinte a bastonate, una mamma che muore lasciando un figlio e altro ancora.
Quanto è lungo questo elenco, quanti Cristi sofferenti e incomprensibili sono l’immagine della desolazione.
Forse è per questo che quella notte, nel Getsemani, i discepoli si addormentarono. Non ebbero la forza di sostenere quella visione.
Avevano capito a modo loro che stava accadendo qualcosa di inguardabile, di insopportabile.
Cercarono rifugio nel sonno, che fa chiudere gli occhi, irretisce la coscienza e la disperde nel sogno, perché la realtà è troppo dura.
Ma lo sguardo intelligente è coraggioso, è puro, come direbbe Simone Weil, non si accontenta di ciò che appare. Con pazienza e desiderio va a fondo, non gli basta quello che ha visto la prima, la seconda, la terza volta.

Ogni Quaresima, ogni Passione, ogni Pasqua ci portano un po’ più dentro questa storia in cui si condensa il dolore del mondo e la sua speranza.
Il tempo favorevole della quaresima è l’occasione di una ennesima possibilità di esercitare il nostro sguardo sul senso delle cose.
Nella passione, nella notte del Getsemani (è questo il titolo di un testo interessante di Massimo Recalcati) si mette a nudo tutta l’umanità di Gesù: mai un Dio fu così vicino all’uomo quanto lo fu Gesù quella notte, al punto di gridare, implorando il Padre perché allontanasse da lui un calice troppo amaro.
Uomo questo Gesù, uomo, uomo fino in fondo.
Come non farsi commuovere da tanta sofferenza? Come non reagire contro chi ha potuto fare così tanto male a un innocente?
Condividiamo questi sentimenti che ci fanno sentire la responsabilità della miseria che ci circonda. E Dio sa quante sono le responsabilità che dobbiamo prenderci di fronte al male del mondo, partendo dai piccoli mali di cui anche noi spesso siamo causa.
Ma dobbiamo andare ancora più a fondo, oltre la nostra volontà di potenza, che rischia di trasformarsi in un limite. La croce nasconde, anzi rivela, la verità.

Quella notte, dopo il grido, Gesù innalza una preghiera di adesione al Padre e al suo silenzio. Si consegna completamente alla morte, per amore.
Ecco cosa possiamo cogliere in questa visione della croce: la testimonianza dell’amore totale.

Uno sguardo disattento si ferma alla contraddizione, allo scandalo inaccettabile e vede lo sconfitto.
Uno sguardo puro, intelligente non per scienza, ma per coscienza, coglie la pienezza della dedizione.
È amore che va oltre qualunque ragionevolezza, oltre la logica, oltre la legge, anche se giusta.

La storia d’amore si completa ritrovando la relazione con l’altro, con il Padre e con tutti gli uomini, solo per amore. Il Figlio dell’Amore, che ha provato l’amore del Padre, ama in maniera assoluta ciascuno di noi.
È la rivelazione del disegno di amore del Padre. Un amore che ci travolge, ci chiama, ci ridà la vista.
Di Lui ci si può fidare. È per noi.

Itala Orlando

Pubblicato il 18 marzo 2020

Ascolta l'audio

Lavarsi gli occhi,
il primo passo della Quaresima 2020

1lavarsi

Alzarsi e lavarsi gli occhi per riprendere la visione della realtà dopo il sonno: lo facciamo tutte le mattine. È il primo gesto quando iniziamo un nuovo giorno. Ed è rassicurante.
In questo tempo quaresimale lavarsi gli occhi assume un significato simbolico straordinario come ci racconta l’episodio del cieco nato che recupera la vista grazie al miracolo di Gesù. È il richiamo alla possibilità di rinnovare lo sguardo, il pensiero, i sogni, le relazioni. La possibilità di vedere ciò che conta.

E il primo passo contiene un’indicazione essenziale: togliere, rimuovere, ripulire gli occhi dalla convinzione che vedere sia un atto naturale, spontaneo, scontato.
Vedere e, subito dopo, guardare vanno rifondati: non è detto che i nostri occhi vedano davvero ciò che deve essere visto. Io che sono miope, ed ora anche presbite, continuo a cambiare occhiali. Mi sono abituata a una vista imperfetta, so che in quello che vedo c’è molto di più di ciò che posso cogliere. Eppure mi accontento.

Mi alzo, tiro le tende: il mio giardino è lì, uguale a ieri e all’altro ieri. Non vedo anima viva. Sono tutti isolati nelle case ad aspettare la fine dell’epidemia. Non si esce, si ascoltano le preghiere su WhatsApp, la messa su Facebook.

Tutto scorre sotto gli occhi, con una scontata velocità digitale, un saltare continuo tra post diversi in cui perdere la vista.
Ma siamo in Quaresima. Per qualcuno questo è un tempo triste (il solito modo di vedere le cose!), per altri è, soprattutto, un tempo favorevole. Un tempo proiettato sulla Pasqua, l’evento più straordinario della storia. è un tempo impegnativo, tempo di palestra, di allenamento, tempo di lotta, di preparazione.

Siamo abituati ad annunciare cambiamenti: da domani mi metto a dieta, da domani farò solo cose intelligenti, da domani penserò solo a me stesso, da domani selezionerò le persone con cui vale la pena parlare, da domani cambierò il mondo...

Quante volte abbiamo cercato di ricominciare la nostra storia, c’è un momento in cui vediamo che non possiamo andare avanti al solito modo, capiamo che dobbiamo cambiare, convertirci, questa è la parola giusta, e poi di nuovo ricadiamo nell’abitudine. È
come tenere in ordine la casa. Dopo aver messo a posto, pulito, lustrato, dopo aver gettato lo sguardo sulla casa perfetta, un attimo dopo vediamo impronte di fango sul pavimento, il lavandino pieno di bicchieri, la cesta strapiena di panni sporchi, il cumulo di roba da stirare che avevamo azzerato la sera prima e ora di nuovo ci sovrasta... non c’è una volta per tutte.

Tutte le volte si ricomincia. Imperfetti. Siamo così, tutti, discontinui, fallibili e incostanti. È incredibile quanto appaia disordinata e confusa la nostra anima quando ci fermiamo a guardarla. Inquieta, debole, incostante e smemorata, fragile, sola. Ci portiamo dentro un’incapacità quasi biologica di tenere insieme le dimensioni di cui siamo fatti: la ragione, il cuore, l’anima, il corpo.

Ciascuno se ne va per la sua strada, una parte tira l’altra, la strattona senza tante spiegazioni. E noi cediamo, distrattamente, compiacendo agli eventi.
Un momento vince la ragione, il momento dopo sono le emozioni a farla da padrone, poi il sentimento detta legge, l’anima è l’ultima a parlare, relegata in soffitta come le cose vecchie, che ogni tanto riscopriamo con un po’ di nostalgia.
Abbiamo perso la capacità di lottare, di affrontare la sfida, difficile e sempre aperta, di tenere insieme tutto quello di cui siamo fatti, il valore della nostra vita.

Questa cosa appare più chiara nelle esperienze limite (la malattia, il dolore, la paura) quando andiamo letteralmente in pezzi e ci troviamo frantumati, senza un vero appiglio, e gli occhi ci servono soprattutto per piangere.
Scrive Eugenio Borgna, uno psichiatra al cui pensiero attingo spesso, che le lacrime, e non la vista, fondano l’essenza degli occhi “e nelle lacrime si esprime, e si realizza fino in fondo, l’orizzonte di senso della condizione umana”.

Le lacrime fanno galleggiare le inquietudini e le speranze infrante “la nostalgia del silenzio e delle parole del silenzio, che solcano i mari estremi dell’anima”.
Le lacrime puliscono gli occhi, all’inizio velano la vista, la rendono acquosa, poi rivelano, soprattutto se incrociano lo sguardo di un altro che ci riconosce, ci scuote, ci abbraccia, ci incoraggia.
Gli occhi vedono, tra le lacrime, una speranza.

Itala Orlando

Pubblicato il 12 marzo 2020

Ascolta l'audio