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Al festival Transitare la storia di Majed Al-Shorbaij intrappolato a Gaza

palestina

“Usciremo da questo incontro diversi e grati, perché le parole che sentiremo ci avranno cambiati”. Ha esordito così Paola Brianti, giornalista di “Libertà”, per presentare l’incontro del festival “Transitare” a Calendasco dedicato alla questione palestinese, nel pomeriggio di domenica 28 settembre: ospite speciale Majed Al-Shorbaij, tornato da poco in Italia, insieme a Marco Romeo di Potere al Popolo e a Emilio Rossi del CIAC (Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione Internazionale) di Parma, che hanno seguito la sua storia. “Ci chiediamo sempre cosa possiamo fare di fronte alla guerra: come si fa a essere un po’ migliori, a non girarsi dall’altra parte?”, ha domandato Brianti presentando la vicenda di Majed, palestinese che lavorava in logistica a Fidenza, e nel 2023 è dovuto tornare a Gaza per assistere suo padre malato. Poco prima di ripartire per l’Italia, l’attentato del 7 ottobre: tutto è cambiato, e Majed è rimasto intrappolato a Gaza, senza poter più ritornare qui.

“Mi viene in mente un’immagine: i pescatori di Lampedusa – spiega Emilio Rossi –. Sono in barca, stanno lavorando, e vedono uno che sta affogando. E lo aiutano senza pensarci due volte, perché è normale, perché è giusto anche se gli aiuti in mare vengono spesso contrastati. Non dobbiamo pensare mai che ci sia qualcuno che farà quello che non facciamo noi: la nostra umanità va messa in gioco sempre. Ognuno può vedere una persona per strada che sta dormendo senza una casa, e può donare una coperta: si può fare molto con pochissimo”. 
“C’è anche bisogno di qualcuno che racconti le storie, le faccia vivere sulla pelle di chi ascolta – aggiunge Brianti – e non serve essere onorevoli o sedere in Parlamento”. È quello che ha fatto Marco Romeo, con la storia di Majed e della sua famiglia: “La prima cosa che ho fatto è stata, semplicemente, rompere le scatole, come facevo da adolescente – prosegue Romeo –. Ho parlato al sindaco di Fidenza ricordandogli che Majed, suo concittadino, era intrappolato a Gaza e non riusciva a tornare in Italia: insieme ai miei compagni lo abbiamo convinto a fare qualsiasi cosa in suo potere per far conoscere la sua storia. Dopo tante serate, tante iniziative politiche e contatti con varie testate giornalistiche nazionali siamo arrivati al Ministero degli Esteri, che ci ha ascoltati”.

Vivere in guerra    

E ha ascoltato la storia di Majed, cresciuto dalla guerra: “Nessuno di noi riesce a spiegare cosa vuol dire vivere una giornata a Gaza – racconta Majed –. Sentire il rumore delle bombe e dei droni, vedere bambini e anziani affamati: le parole non bastano. Sono rientrato a Gaza a settembre 2023, e dovevo ripartire da lì l’11 ottobre ma è stato tutto bloccato. Noi non abbiamo mai vissuto liberi: già da ben prima del 7 ottobre bisognava ottenere un permesso dagli israeliani per uscire dal Paese, ma quella volta era diverso. Mi serviva ottenere un permesso anche dagli egiziani, che chiedevano anche 5000 dollari a persona. Non avevo quei soldi, quindi ho provato a chiedere al consolato italiano a Gerusalemme ma mi hanno risposto che gli israeliani non mi avrebbero mai autorizzato. Allora ho iniziato a fare video, contattare gente in Italia e il CIAC, che conoscevo da anni: tanti italiani mi hanno supportato. Finalmente ad aprile 2025 il consolato mi ha chiamato, per dirmi che potevo uscire da Gaza con mia moglie e mio figlio. Ero molto felice, non riesco a raccontare quella felicità, ma mi ha ridato la speranza”.

Basta poco per fare la nostra parte

“Non c’era cibo, non c’era pane, si viveva con il ronzio dei droni – spiega la moderatrice Brianti –, e suo fratello è stato colpito da un proiettile perché si è avvicinato a un camion che distribuiva la farina. Poi, però, Majed ha conosciuto una ragazza, Lamis. Si sono innamorati, e in mezzo all’orrore è germogliato qualcosa di bello: lei è rimasta incinta. Bisognava fuggire: quando sono tornati in Italia non erano più due ma tre, c’era anche il piccolo Maher. Questa però è una guerra diversa da quelle del 2014 e del 2018: più crudele, non fa prigionieri”. “Sì, perché è un genocidio – argomenta Majed –: ci sono civili, bambini, anziani che vivono nelle case che hanno costruito o comprato con gli sforzi di una vita, e vedono piovere le bombe sulla loro testa. Che colpa hanno? Il 7 ottobre non è colpa loro, la loro colpa è solamente essere palestinesi e vivere nella propria terra”.
“C’è una netta differenza tra la reazione popolare di fronte a un popolo sterminato con brutalità e i governi che si piegano agli interessi economici – aggiunge Marco Romeo –. È una guerra che si combatte anche con le parole: quando il significante e il significato si sganciano, diventa 'antisemita' anche un palestinese che per definizione è semita perché ha origine in quella terra. Da un lato c’è un esercito, e dall’altro una popolazione di civili che vive in regime di apartheid”.

“Basta poco per fare la nostra parte: dare una coperta a chi ne ha bisogno; essere un granellino di sabbia che sa disturbare quando serve – ha concluso la giornalista Brianti, con una domanda per Majed che guarda al futuro –. Cosa speri per il tuo bambino?” “Che viva e giochi insieme ad altri bambini, che vada a scuola e studi, senza preoccuparsi dei bombardamenti o dei droni e senza il rumore delle bombe intorno”.

Paolo Prazzoli

Nella foto, l'incontro a Calendasco nell'ambito dell'iniziativa “Transitare” con Majed Al-Shorbaij, tornato da poco in Italia dalla Plastina, insieme a Marco Romeo di Potere al Popolo e a Emilio Rossi del CIAC.

Pubblicato il 29 settembre 2025

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