La giornalista Maria Vittoria Gazzola tra i bambini di Kinshasa
“Negli occhi di questi bambini e bambine c’è voglia di vita. Nonostante un passato che si fatica ad immaginare: violenze subite ripetutamente a soli sette anni, abbandono dei genitori, che buttano i figli piccoli in strada perché procurino denaro alla famiglia, oppure accusandoli di stregoneria o di portare il malocchio (credenze largamente diffuse in Congo)”.
A fotografare drammi e resilienza dei giovani africani da lei seguiti e amati è stata la giornalista piacentina Maria Vittoria Gazzola. Lo ha fatto lo scorso 9 gennaio alla Galleria Biffi Arte di Piacenza, dove ha raccontato ad un folto pubblico la realizzazione di un progetto per aiutare i bambini e le bambine del Congo a costruire ed essere protagonisti del proprio domani. Un'esperienza che ha portato la giornalista piacentina a Kinshasa, capitale del Congo, per quattro mesi dall'inizio del 2024, in collaborazione con il “Centro orientamento educativo” di Barzio di Lecco: una realtà che si occupa del recupero sociale e familiare di bambine e bambini di strada, operante in territorio africano. Intervistata dal giornalista Mauro Molinaroli, Gazzola era infatti accompagnata da Raymond Bahati, psicologo e formatore del Coe.
Nelle foto, Maria Vittoria Gazzola tra i bambini di Kinshasa; sopra, l'incontro della giornalista piacentina alla Biffi.
I bambini hanno bisogno di essere istruiti
“Sono cinquant'anni che vado in Africa, araba, bianca o nera che sia, documentando con scrittura e immagini. Le bambine e i bambini di Kinshasa che vedete in foto sono già espressione di un percorso di miglioramento delle loro condizioni di vita – ha sottolineato la giornalista all'inizio - , grazie agli aiuti, a chi si occupa di loro e dispone risorse economiche affinché possano acquisire gli strumenti di lavoro. Non ho voluto cadere nella facile retorica del dramma e della commiserazione, nonostante le atrocità che hanno segnato le loro vite”.
“Lo scorso anno nella capitale africana ho seguito trenta bambini e bambine ospiti del COE, tra i 7 e i 16 anni – prosegue – . Dovevo far fare loro attività di doposcuola, inserendomi negli spazi liberi tra le ore di scuola, quelle del catechismo, di canto corale e il tempo impiegato nel «menage» (dedicato alla cura di sé e dell'ambiente domestico). Bisogna tener presente che i ragazzi del COE vanno tutti a scuola, fa parte del loro percorso di reinserimento sociale. Quando però arrivano al centro non sono scolarizzati. A volte, anche a 14 anni, non sanno nemmeno tenere in mano una matita; per cui hanno bisogno di tempo e aiuto per imparare e migliorare la propria condizione”. E poi precisa: “Chi in Congo va a scuola, se può, sceglie istituzioni private. Le scuole pubbliche sono di bassa qualità e i maestri vengono pagati pochissimo, al contrario dei politici: basti pensare che un parlamentare viene pagato 21mila dollari americani al mese, mentre un insegnante ha uno stipendio medio di circa 50 o 100 euro al mese in dollari. Queste cifre danno l'idea della sperequazione di ricchezza esistente tra classe politica e popolazione. Il COE paga le scuole per i suoi ospiti ma si tratta di istituti di livello non troppo altro; altrimenti i bambini farebbero fatica a seguire, viste le condizioni in cui arrivano al centro”.
Non solo cultura, ma anche cucito, cucina
“La mia intenzione iniziale con loro era di dare vita ad un laboratorio per la realizzazione di bambole di pezza – ha poi spiegato - , ma il progetto ha poi preso forma da solo nel tempo, ascoltando i ragazzi, le loro esigenze e curiosità. Dopo tre giorni di fabbricazione di bambole erano un po' annoiati: sono bambini che perdono l'attenzione facilmente, ma tagliare tessuti piaceva molto, li faceva sentire più autonomi. Presto è emerso il desiderio di avere una borsa per ciascuno fatta con le proprie mani, dove riporre strumenti di lavoro e oggetti personali. Alla fine ne abbiamo create 40, con grande soddisfazione generale. Fin dai nostri primi incontri ho percepito il grande bisogno di ascolto e contatto fisico di questi bambini. Sollecitandoli a fare domande e a esprimere e mettere in pratica ciò che volevano a partire dalla quotidianità, ho vinto la loro diffidenza iniziale: tra noi si è instaurato un bellissimo rapporto di affetto e fiducia”.
“Cercavo anche di diversificare le mie proposte attraverso altre attività, come per esempio la cucina.
Un giorno una bambina mi ha chiesto cosa fosse la torta di mele, probabilmente ne aveva sentito parlare a scuola. Io l'ho spiegato a lei e a tutti gli altri e poi ho fatto cercare la ricetta su Internet, per poterla trascrivere. Alla parola «internet» sono tutti impazziti, succedeva ogni volta che vedevano un telefonino. Loro hanno quelli senza connessione. Abbiamo anche fatto i biscotti con le gocce di cioccolato usando le formine che avevo portato da Piacenza, e sono stati apprezzatissimi”.
“Cucito, cucina quindi, e poi c'era la terza c di «cultura». Abbiamo fatto diverse gite per far conoscere a bambini e ragazzi la loro città. Kinshasa è una capitale di 20 milioni di abitanti, con lunghezze comprese fra i 20-25 kilometri lineari. Brulica di persone, ingoia i suoi abitanti, ma con queste dimensioni si capisce come sia difficile conoscerla a fondo. Abbiamo quindi voluto portarli in giro per far conoscere loro il Paese e la sua storia. Abbiamo visitato la cattedrale e il museo di storia del Congo, e poi abbiamo passeggiato lungo il fiume Congo, che sarebbe bellissimo, se non fosse invaso dai rifiuti. Senza dimenticare le fermate al supermercato per prendere qualche dolcetto. Sempre molto gradite, anche per il piacere dell'aria condizionata.
Sono contenta di questa esperienza e delle altre fatte in Africa – ha concluso - : contenta di essere stata accolta come portatrice di pace. Continuerò ad andare finché mi sarà possibile”.
L'intervento di Bahati
La parola, o sarebbe meglio dire la musica, è poi passata a Raymond Bahati. Cresciuto in Congo, ma oggi residente a Milano, il formatore del COE è anche direttore di un coro da lui fondato in Italia con altri ragazzi congolesi del capoluogo lombardo e dintorni. Bahati ha quindi subito suonato un brano molto amato dai bambini congolesi con il tamburo che porta sempre con sé.
“È un testo dedicato alla Madonna. Parla prima delle madre che ci ha messo al mondo e poi della Vergine Maria, simbolo di tutte le madri – ha detto - . I bambini amano questa canzone proprio per questo. Consapevoli fin da piccoli delle loro sofferenze, sono fiduciosi che un giorno finiranno e loro andranno tra le braccia del Signore. Questo brano dice: “Alla fine dei miei giorni, Mamma, abbracciami, vieni a consolarmi”.
Con un tamburo e la sua voce Bathi è riuscito ad emozionare tutto il pubblico, confermando l'amore innato del popolo africano per la musica.
Poi il giovane ha preso la parola, cominciando con un dato. “In Africa i bambini di strada sono decine di migliaia, 40000 circa secondo le stime – evidenzia - . Giovani abbandonati, come già detto accusati di stregoneria, o con genitori che non riescono ad accudirli per mancanza di mezzi, o perché morti in guerra o di malattia; pensate che la speranza di vita media in Congo è di 40 anni. Io sono stato uno di quei bambini”.
“Il contesto socio – culturale a Kinshasa è complesso – continua - . Spesso la fede, molto radicata, viene manipolata da gruppi o persone che fanno leva sulla disperazione della povera gente e la trasformandola in superstizione: usando i più deboli ( i bambini e i pochi anziani) come capri espiatori di ogni sventura. I più fragili vengono spesso abbandonati per questo. È una situazione difficile da capire, molto lontana dalla mentalità occidentale”.
“Io torno in Congo due volte l'anno, d'estate e a Natale, per trascorrere un po' di tempo con i miei fratelli e con i bambini del Centro. Vederli aiutati con tanto amore disinteressato da una persona esterna come Maria Vittoria è straordinario, mi fa commuovere. Quando invece sono gli stessi congolesi ad aiutare i loro fratelli meno fortunati, spesso lo fanno per un tornaconto, e questo è molto triste”.
Poi chiude con una considerazione importante. “Il nostro Centro è una realtà privilegiata per il Congo – ha sottolineato - , il problema è tutto il resto. Fuori dal recinto del COE c'è l'inferno. Ricordo che una volta è venuto a farci visita l'arcivescovo di Milano monsignor Delpini e insieme ai nostri ragazzi, sia quelli delle scuola sia gli studenti universitari, lo abbiamo accompagnato a fare un giro fuori dal Centro: era impressionante, una fogna a cielo aperto, una miseria inimmaginabile, a cui anch'io non ero più abituato.
“Si troverà una via d'uscita anche da una situazione come questa? - ho chiesto a Delpini - . E lui: Ho girato il mondo, ho visto tantissime situazioni difficili, ma un'indigenza del genere non la ricordavo. Non sono sicuro ci sia una soluzione. Considerazioni lucide e amare, che mi hanno spinto a pensare di tornare stabilmente in Congo per fare qualcosa di concreto per i miei fratelli. Mi sto preparando e credo tornerò a casa nei prossimi cinque anni. Non mi basta più tamponare le necessità, con la mia esperienza in occidente voglio aiutare i miei conterranei a costruire il proprio futuro”.
Micaela Ghisoni
Pubblicato il 21 gennaio 2025
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