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Padre Maccalli: «Sotto lo sguardo di Dio mi addormentavo ogni sera»

maccalli

Catene di libertà. È un ossimoro il titolo del libro in cui padre Pier Luigi Maccalli, che si fa chiamare “padre Gigi”, racconta i due lunghissimi anni in cui un gruppo di terroristi islamisti l’ha tenuto prigioniero nel Sahel, in Mali. Un ossimoro che perfettamente esprime lo spirito con cui padre Gigi è riuscito a sopravvivere.
“I miei piedi – pensava padre Gigi durante la prigionia – sono incatenati, ma il mio cuore no. Ho pensato alle parole di Teresa di Lisieux «Io nella Chiesa sarò l’amore», e mi sono detto «Porterò la vita alle periferie del mondo». Poi mi è venuto in mente Marion Brésillac, il fondatore della Società delle Missioni Africane (Sma), che diceva «Siate missionari dal profondo del cuore». Ecco, io ho viaggiato, e mi sono sentito missionario anche in catene”.

Chi è Padre Gigi Maccalli
Pier Luigi Maccalli nasce nel 1961 in un paesino del cremasco. Ordinato sacerdote nel 1985 nella Società delle Missioni Africane (Sma), fondata a metà ‘800 dal vescovo francese Melchior de Marion Brésillac, animato da un profondo impulso missionario. Padre Gigi parte per la Costa d’Avorio, dove rimane dieci anni, poi rientra in Italia per occuparsi di formazione, e infine ritorna in Africa, questa volta in Niger, a Bomoanga dove vede nascere una chiesa dedicata allo Spirito Santo, nel 2007. La sera del 17 settembre 2018 viene rapito dal Gsim, un gruppo di fondamentalisti islamici guidato da Abu Naser e ispirato ad Al-Qaeda. Condivide la prigionia con Luca Tacchetto e Nicola Chiacchio. Dopo due anni, tra il 6 e l’8 ottobre 2020, viene rilasciato. La storia intanto era cambiata, nel mondo si era diffusa la pandemia da Covid-19. Oggi vive nella comunità di Padova del suo istituto e non esclude un domani di tornare in Africa.
È venuto a Piacenza la sera del 3 luglio, intervistato da don Davide Maloberti. “Abbiamo voluto legare alla figura di sant’Antonino un testimone dell’oggi. Liberarci dalle catene è il compito della comunità cristiana”, commenta don Giuseppe Basini, parroco di sant’Antonino.

Bomoanga, Niger
Il Niger – spiega padre Gigi – è uno stato enorme. A nord c’è il deserto, a sud la savana in cui vivono 23 milioni di abitanti, per il 98% musulmani. Bomoanga è una parrocchia molto estesa, con distanze a volte lunghissime. I gruppi sono piccoli e dispersi, ma c’è un forte senso di comunione nelle grandi feste, in particolare la festa patronale della Pentecoste. Si vive di pastorizia, è l’immagine di un’Africa «vecchio stampo». Si parte per fare un lavoro di prossimità fatta di attenzione sociale, apprendimento della lingua e delle tradizioni, dunque il mix del missionario”.

La sera del rapimento
“Quella sera – racconta – stavo per andare a letto. Era una sera normale quella del 17 settembre 2018, il mio compagno di missione era malato e già dormiva. Dopo cena mi ritirai in camera e telefonai a mio nipote Nicola per un consiglio informatico. A un certo punto sentii dei rumori, pensavo fossero persone che chiedevano medicine, poiché io possedevo i kit d’urgenza. Allora uscii e vidi tre fucili puntati verso di me e un gruppo di persone che mi stava circondando. Avvenne tutto in brevissimo tempo, mentre mio nipote seguiva la scena in diretta al telefono. Mi legarono i polsi dietro la schiena. Chiesi loro cosa volessero, e loro risposero «Soldi»; allora tornai dentro, spintonato da loro, e mostrai quello che avevo nello zainetto. Dopodiché mi spinsero fuori, buttarono il telefono che era sulla scrivania, mi condussero fuori dal villaggio e poi, con la moto, partimmo. Pensavo fossero ladri e che mi avrebbero lasciato a pochi kilometri di distanza, ma quella sera oltrepassammo la frontiera ed entrammo in Burkina Faso. Allora chiesi loro di nuovo «Cosa volete?», e loro risposero «Chiamaci jihadisti, terroristi, va bene tutto». Mi misero un casco in testa e dei guanti per coprire la mia pelle bianca e la mattina dopo oltrepassammo un’altra frontiera, quella del Mali. Il 4 ottobre mi trovai di fronte al capo, Abu Naser; il giorno seguente mi legarono con la caviglia a un albero. Rimasi così per ventidue giorni, senza muovermi. Piangevo e ripetevo le parole di Gesù sulla croce «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». La mia mente si riempì di «perché»”.

L’islam non è questo
“Nonostante tutto io non me la sento di dare un giudizio sull’islam. La lettura che davano quegli uomini non era quella che conoscevo e che tuttora conosco. È diversa da quella dei miei amici nigerini che, una volta rilasciato, mi hanno chiamato dicendomi di aver pregato Allah affinché io fossi liberato. Il terrorismo non è islam”. È un’esperienza terribile quella di padre Gigi Maccalli, che tuttavia mantiene il suo ottimismo nei confronti dell’Africa. “Credo nel futuro delle nuove generazioni. Come missionario dico ai giovani di formarsi, di superare le frontiere etniche, linguistiche e religiose. Da qui nasce un’Africa con uno sguardo di fraternità e incontro, seppur con le tante ferite lasciate dal colonialismo e dalla corruzione. Lavorare per l’Africa del domani non è una missione impossibile: ci sono già esperienze positive di incontro, non marcate dal fanatismo e da deviazioni che vogliono imporsi con la forza e la violenza”.

L’idea di partire
“Più di una volta mi domandai se fossi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e la risposta fu «No, Gigi, sei nel posto giusto al momento giusto. Il posto di un missionario è stare fra la sua gente. Quando il fondatore della Sma, Marion Brésillac, arrivò in Sierra Leone il 14 maggio 1859, gli consigliarono di non scendere dalla nave perché era in corso un’epidemia da febbre gialla. Lui rispose «Non importa, lì ci sono i miei fratelli. Io voglio andare da loro». Dopo tre settimane morì di febbre gialla e fu sepolto a Freetown. La mia missione iniziò nel 2006, quando a Lione si festeggiavano 150 anni di fondazione della Sma. Il vescovo di Niamey cercava missionari da inviare in Niger, e io desideravo andare nei posti più abbandonati. Il Niger era l’ultimo paese al mondo per sviluppo umano secondo l’Onu. Dunque accettai immediatamente e l’anno dopo partii”.

«La fede mi ha aiutato a resistere»
“In quei due anni pregavo senza risposta. Pregavo senza breviario, senza Bibbia ma non senza Dio. Stavo vivendo un’esperienza di preghiera del cuore, respirare con Dio, amare come Dio. Non ho le parole necessarie per esprimere ciò che provavo. Nella sventura Dio è assente ma è proprio lì che l’anima fedele ama come Dio, ama a vuoto, gratuitamente, tutti, buoni e cattivi. Continuavo fedelmente a pregare, dicevo a me stesso «Continuerò a pregare per la pace a portare Dio nel mondo». Mi credevo dimenticato e abbandonato da tutti. Non ho mangiato eucaristia per 722 giorni, ma non mi è mancata l’esperienza della messa, anche nel deserto, di fronte a quell’infinito. «Questo è il mio corpo offerto, questo è il mio cuore spezzato. Non ho altro da offrirti, Signore». Vedendo giovani ragazzi che giocavano coi kalashnikov li pregavo di allontanarli da me. Era una spada di Damocle che pendeva sospesa su di me, e io non sapevo come sarebbe andata a finire. Nove mesi dopo il rapimento ci fu un malinteso e uno di loro mi minacciò dicendomi «Alla prima occasione ti metto una pallottola in fronte». Allora ho tirato il fiato e mi sono detto «Resisti, fai attenzione, alza le difese». Pensai alla vicenda di Charles De Foucauld, ucciso dai rapitori in Algeria. Ma più i giorni passavano, più aumentava la speranza di un possibile ritorno”.

Le vittime innocenti
“Un regalo che mi ha fatto questa esperienza è la forte comunione con le tante vittime innocenti del mondo per guerre, pandemie e incidenti. Continuo a portare in preghiera tutte le vittime innocenti. Il dolore innocente è un argomento su cui ultimamente rifletto molto. Le catene sono state molto fastidiose. Cambiando spesso luogo, bisognava che io prendessi con me tutta la roba, ma una volta lasciai la catena, perché non volevo portarmela dietro. Dopo qualche ora si accorsero che non c’era, allora mandarono uno dei loro a recuperarla. Per un mese ogni giorno mi slegavano una catena e l’altra dovevo portarla come cavigliera per il resto della giornata. Mi sentivo abbandonato da Dio come Gesù crocifisso. Ho pianto, ma sono andato avanti. Gesù dice anche «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Ho perdonato. Non porto rancore, non odio, mi sento in pace. Credo che queste parole possano aprire un mondo diverso. Gesù ci insegna ad amare i nostri nemici. Io per loro ero il nemico occidentale da convertire o da sopprimere. «Come posso vedere questi qua come vedo mia sorella, mia madre. Amare i nemici, come si fa?»”.

Testimoniare fraternità
“L’ultimo giorno, 8 ottobre 2020, Abu Naser mi portò fuori per liberarmi. Mi rivolsi a lui dicendo «Che Dio ci faccia comprendere un giorno che siamo tutti fratelli». Lui scosse la testa in segno di disaccordo. Ho fatto la mia proposta di fraternità, siamo tutti chiamati a testimoniare. Quando tornai in Italia incontrai papa Francesco, che pochi giorni prima aveva diffuso da Assisi l’enciclica «Fratelli tutti». Mi disse: «Sì, il Vangelo non è che testimoniare fraternità». Il perdono e la proposta di fraternità è ciò che fa il mondo nuovo rispetto alle guerre e alle violenze. Ma perdonando non significa che dimentico. Ho incontrato persone che mi hanno abbracciato e mi hanno detto «Ora dimentica». No, io voglio ricordare quella valle di lacrime dove ho visto la luce, l’orizzonte. Questo voglio testimoniare, che la fraternità e il perdono sono possibili. Non sono le armi che portano alla pace, bensì il dialogo, l’incontro. Ho provato a farlo capire anche ai mujaheddin, io ero in Africa per testimoniare un incontro non fatto di armi ma di amicizia e sviluppo. I veri ostaggi erano loro, schiavi d’ignoranza, analfabetismo e propaganda”.
«Stai a galla, fai il morto»
“Il Vangelo propone una misura alta. Ho letto il Corano quando me l’hanno dato, e mi sono innamorato ancor di più del Vangelo. Loro mi consideravano un nemico, un kāfir, un traditore. È Gesù che dice «Benedici quelli che ti maledicono». È impressionante quanto sia alta la misura del messaggio di Cristo. Non l’ho mai più trovata se non nel Vangelo. Arrivai a uno stadio in cui cominciavo a perdere colpi, non ricordavo neanche i nomi dei miei familiari. Mi calmai e pensai «Non remare contro, sei nel deserto, lasciati portare, non puoi scappare, fai il morto». Ci vuole pazienza a lasciarsi portare dal mare e aspettare l’onda buona che ti riporti indietro. Stai a galla, sopravvivi, resisti e poi l’onda ti porterà a riva. Così sono riuscito a sopravvivere”.

«Speriamo domani»
“Mi fecero registrare nove video, solo uno dei quali apparve sui media. Per ognuno pensavo fosse quello decisivo per negoziare ed essere liberato. Ogni sera mi addormentavo sotto lo sguardo di Dio dicendo «Speriamo domani». Quando pregavo mi allontanavo e cantavo, ricordando mio padre che amava i salmi di Turoldo: «Quando il Signore le nostre catene strappò e infranse, fu come un sogno», versi che suonavano tremendamente attuali. Gli jihadisti però mi avvertirono «Qui la musica è vietata. Solo il Corano va cantato e ascoltato». Uno di loro, Abdul Ramin, mi fece ascoltare una registrazione di spari a raffica di mitragliatrici e mi disse «Questa è musica». No, io credo che la musica sia il linguaggio della Bellezza, come l’arte. Quando a Genova, ogni volta che un missionario partiva mettevo a tutto volume la canzone «Con te partirò» di Andrea Bocelli, per esprimere il desiderio di partire con lui. Quel canto me lo sono goduto per me come speranza, l’occhiolino di Dio che diceva «Partirai»”.

La fede semplice dei genitori
“Ho ringraziato Dio che i miei genitori fossero già in cielo quando fui rapito, non avrebbero sopportato la notizia. La loro fede semplice ma molto concreta mi accompagnava, ricordavo le parole di mia madre «State attaccati al Signore e alla Madonna» e quelle di mio padre «Figli, mi raccomando, andate d’accordo». I loro insegnamenti mi hanno dato forza. Sognai mia madre una notte, il suo abbraccio fu per me motivo di grande consolazione”.

«Disarmiamo la parola»
Quell’8 ottobre solo quando salii sull’aereo mi sentii davvero libero. Era una responsabilità. Prima del rapimento, con mia sorella e mio cognato facemmo arrivare in Italia una bambina, Miriam, che doveva essere operata al cuore. Dopo un mese morì. Quando diedi la notizia ai genitori piangevo perché avevo posto la mia speranza in quella bambina. Allora furono i genitori a consolarmi dicendomi «Dio ha dato, Dio ha preso. Noi abbiamo fatto tutto il possibile». Quella fede era una speranza di vita. Atterrato in Italia, andai a inginocchiarmi sulla tomba di Miriam a Roma. Tornai a casa per la mia gente. Per la prima volta gustai quanto fosse bella la libertà e iniziai a impegnarmi per liberare il perdono, una parola che sa portare speranza, consolare gli afflitti, gli oppressi. Intravedo che questa è la mia responsabilità. Io le catene le ho portate, e dico che tutti siamo incatenati. Le catene sono le etichette con cui giudichiamo e condanniamo le persone. Guardiamoci da fratelli se abbiamo la fede. Si sentono tante parole armate. Disarmiamo la parola. Liberiamo la mano, se questa mano è armata diventa omicidio, femminicidio, violenza, morte. Dalla nostra parola inizia un mondo di fraternità. Non dimentichiamo le altre persone che oggi sono prigioniere”.

I testimoni non sono supereroi
Al termine della serata è intervenuto il vescovo mons. Adriano Cevolotto. “A volte si pensa – commenta – che i testimoni e i martiri siano dei supereroi, ma oggi abbiamo sentito quante lacrime, quanta ribellione c’è dentro di loro mentre soffrono. Non si naufraga solo perché c’è un pezzo di legno che ci tiene a galla, è la croce di Cristo”.

Francesco Petronzio

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Nelle foto di Carlo Pagani, immagini della serata svoltasi il 3 luglio ai Teatini.

Pubblicato il 4 luglio 2022

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