«I miei quarant'anni da infermiera»
Il 12 maggio ricorre la Giornata internazionale dell'infermiere, che quest'anno ha come tema "Ovunque, per il bene di tutti". In vista dell'appuntamento - che cade il giorno della nascita di Florence Nightingale, fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne - con Maria Genesi, presidente dell’Ordine provinciale delle professioni infermieristiche (nella foto sopra), facciamo il punto su una professione che sta ancora lottando per vedersi riconosciuta la sua specificità e che soffre, al pari di altre nel settore sanitario, dello sbilanciamento tra domanda e offerta. “Prima - spiega Genesi - non si aprivano bandi di assunzione e si sostituiva solo l’80 per cento del personale che andava in pensione. Con la pandemia, i bandi si sono moltiplicati, anche al Sud. Questo implica che tanti, provenienti dal Meridione e in servizio nell’Azienda Usl, torneranno a casa. Pensare che sono già tre anni che la Federazione va dicendo che mancano 60mila infermieri in Italia...”. Nel Piacentino sono iscritti all'Opi 2.134 infermieri.
Quarant'anni di servizio in Azienda Usl, Maria Genesi è impegnata anche a livello nazionale nella neo-istituita "commissione d'albo degli infermieri". Ma per lei, quando è scattata la scintilla per questa professione? “Nessuno della mia famiglia era infermiere. Dopo le scuole ho iniziato a lavorare in fabbrica. In quel periodo ho conosciuto una persona che aveva fatto la scuola infermieri a Roma: «perché non provi?». Così da Genepreto sono partita per la capitale. Era il 1969: nell’ospedale dove facevo il corso gli infermieri erano in sciopero, così dei pazienti ci occupavamo noi allievi con i militari...”.
— E poi cosa è successo?
Ho lavorato per quarant’anni all’Azienda Usl di Piacenza. Primo reparto: dialisi. Ci sono stata dieci anni, sapevo tutto del sistema renale e degli apparecchi. Finché ho sentito il bisogno di cambiare e la direzione mi ha mandata in Geriatria. Lì ho scoperto... di non sapere niente.
— In che senso?
Sapevo tutti dei reni, ma il paziente anziano è pluripatologico. Ho ripreso in mano i libri per studiare il diabete, lo scompenso cardiaco... Mi piaceva seguire i giovani, allora la direttrice della scuola infermieri mi propose di entrare nel gruppo di docenti. Io mi vedevo più sul campo. Invece, dopo una settimana ero alla scuola. I ragazzi sono stati un grande stimolo. Ma non è finita qui. La direzione mi ha proposto nei primi anni Novanta di contribuire ad avviare Medicina d’urgenza.
— Un’altra sfida.
Dell’équipe facevano parte alcuni infermieri che venivano dal Pronto Soccorso ma anche degli ex allievi: abbiamo potuto mettere in pratica quel che avevamo studiato. Ricordo ancora quando deragliò il Pendolino: ero a casa, avevo appena finito di pranzare. Mi precipitai in ospedale. C’erano già tutti i colleghi. Non c’era stato bisogno di chiamarci.
In quei cinque anni abbiamo anche cambiato i modelli organizzativi: anziché lavorare per compiti, siamo passati a lavorare per settori.
— Vale a dire?
Ogni infermiere seguiva un certo numero di malati sotto ogni punto di vista: per esempio, quando la oss faceva l’igiene era presente per capire se c’era qualche problema alla cute. Aveva la situazione globale sotto controllo.
— Come mai questa svolta?
Un giorno eravamo in guardiola io, che ero la coordinatrice, quattro infermieri e il medico. Il medico riceve una telefonata: “domani il paziente tal dei tali deve fare un gastro”. Ma il giorno dopo non era stato messo a digiuno e così non ha potuto fare l’esame. Lì ho capito che bisognava cambiare modo di lavorare.
— E dopo?
Sono passata in direzione assistenziale e ho chiuso la carriera sul territorio, gestendo il distretto di Ponente, ovvero la mia vallata. Io che ero una “ospedaliera” mi sono ritrovata ad avere a che fare non solo con pazienti e parenti ma con i medici di base e i sindaci, che nei paesi più piccoli a volte erano anche medici - ride -. È stata l’esperienza più bella della mia vita. Avevo delle infermiere dell’assistenza domiciliare straordinarie. Tornavano dal giro alle 15: “ma almeno fermatevi a mangiare un panino”, le rimproveravo.
Una volta era nevicato moltissimo: i mariti delle infermiere avevano montato le catene sulle Panda che avevamo in dotazione. A Piozzano sono riuscite ad arrivare in una casa dove viveva un anziano solo, aveva la stufa spenta, non riusciva ad andare in cantina a prendere la legna. Hanno spalato la neve per creare un sentierino, hanno acceso la stufa e sono ripartite.
Potete leggere l'approfondimento con l'intervista a Maria Genesi e le esperienze sul campo di Davide Cassinelli, case manager della rete delle cure palliative, e Mirko Zardi, il primo infermiere inquadrato nelle Usca, sull'edizione di questa settimana
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Pubblicato il 6 maggio 2021
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