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Pupi Avati: il mio film su Dante

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In questo periodo di rimessa in gioco della nostra quotidianità, abbiamo ascoltato il parere di Pupi Avati, regista di primo piano nel cinema italiano contemporaneo. Bolognese di nascita, classe 1938, si è proposto con film di sempre maggior respiro, muovendosi tra commedia e dramma, tra storia e metafora, senza trascurare una vena poetica e malinconica. Autore, a partire dal 1968, di una quarantina di film tra cinema e tv, si è imposto come artista di solidi orizzonti culturali e di forte attenzione ai valori della persona: forse l’interlocutore ideale per una riflessione sul periodo che stiamo attraversando.

— Avati, nel corso della sua carriera lei ha raccontato tra cinema e tv i cambiamenti sociali e culturali del nostro Paese. Questo momento di oggi come lo sente, come lo racconterebbe?

Essenzialmente attraverso la riscoperta dei rapporti “vicini”. Ad esempio con mia moglie. Viviamo un tempo inedito attraverso il quale ritrovare qualità e difetti non visti prima. Di mia moglie apprezzo ora la straordinaria efficienza nei ruoli più diversi, visto che al momento non ci sono altri ad occuparsi di noi. Vedo in lei premura ed energia, e mi sento di nuovo figlio dopo essere stato uno che dentro casa provvedeva a tutto. Lei mette in campo una capacità che non conoscevo, e in questa emergenza costringe e guardare la verità su noi stessi. E pensare che per gli stessi motivi gli avvocati dicono che c’è un fiorire di divorzi…

— Quale indicherebbe come linea–guida della sua filmografia? Alcuni motivi predominanti sembrano essere il territorio, la famiglia, l’amicizia, la campagna. Nell’affrontare questi temi si sente portato più per il realismo o per la fiaba?

Fiaba, realtà? A dire il vero, mi sono abituato più a raccontare le cose come mi sarebbe piaciuto che andassero a finire piuttosto che non come sono poi finite. Non faccio documentari e i miei film non sono testimoni di quello che succede. Più che un cinema della realtà, definirei il mio un cinema dell’“auspicio”. È vero, in molte storie ho indugiato su aspetti consolatori, e questo mi è stato anche rimproverato, anche se poi certi miei copioni, tipo “Regalo di Natale” o “Impiegati”, avevano un’atmosfera spietata e cinica. Io però ho preferito rifugiarmi nella mia memoria, ho “piegato” quelle situazioni ai miei ricordi personali.

Ha riflettuto sul ruolo della Rai e sul suo patrimonio audiovisivo per recuperare una memoria culturale e sociale…

Il ruolo della Rai va ripensato cominciando col considerare l’opportunità che si presenta di un nuovo tipo di presenza tra pubblicità e inserzionisti. Siamo in un momento in cui l’utente non perde poi troppo tempo a comprare cucine, divani o automobili, un momento sospeso, “sabbatico”, in cui l’azienda potrebbe “ignorare” l’auditel e accostarsi di più al ruolo di servizio pubblico. In questo periodo la gente che rimane a casa è più sensibile. È il momento in cui l’uomo ha ammesso il proprio limite. Abbiamo assistito ad un forte recupero di spiritualità di fronte alla figura di un Pontefice stanco, claudicante, ansimante, che ha implorato Dio di aiutarci e salvarci. Questo recupero di temi forti, punto di partenza per una visione culturale, può essere alla base di una proposta basata anche sulle Teche Rai.

— Attualmente le sale cinematografiche sono chiuse. Non si corre ora il rischio che il pubblico perda l’abitudine, tutta collettiva e socializzante, di andare al cinema?

All’opposto, si può vedere la cosa come una opportunità. Nei primi anni del secondo dopoguerra, ero ancora piccolo ma ricordo bene quel momento in cui a Bologna ogni cortile diventava una sala da ballo. La fine del coprifuoco, l’allentarsi della paura avevano creato un clima di rifiuto delle restrizioni di fronte al quale la voglia di socializzare era smodata e irrefrenabile.

— E lei cosa sta preparando per l’immediato futuro?

Il 23 marzo dovevo cominciare a lavorare a Cinecittà su un film ispirato al matrimonio del padre di Vittorio Sgarbi, durato 65 anni, e tratto dal libro “Lei mi parla ancora”, ma tutto si è interrotto. Finalmente sembra invece arrivato in porto con Rai Cinema, dopo 18 anni, il progetto relativo al mio “Dante”, una biografia come omaggio ai 700 anni dalla morte del poeta. Un film cui tengo molto perché Dante Alighieri è, ancora oggi, una figura quasi sconosciuta.

Massimo Giraldi

Pubblicato il 27 aprile 2020

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