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Madre Emmanuel: Il perdono che salva

corradini

“La vocazione di Giuseppe sarà quella di convertire i fratelli al perdono tra di loro e verso il padre, da cui si erano distaccati: perché Giuseppe per primo perdona loro le violenze commesse nei suoi confronti, mostrando che il perdono non è mai una questione personale ma parte da una persona e arriva ad inondare gli altri della luce della salvezza”. In queste parole c’è il cuore della riflessione tenuta da Madre Emmanuel Corradini nel monastero di San Raimondo lo scorso 8 novembre.
Intitolato “Il perdono che salva”, il secondo incontro del nuovo ciclo di lectio dell’abadessa si è focalizzato sulla storia di Giuseppe e i suoi fratelli raccontata nel libro della Genesi. Ed è proprio citando la Genesi che la Madre ha cominciato il suo discorso.

“Israele disse a Giuseppe: […] "Va' a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a darmi notizie". […] Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono contro di lui per farlo morire. […] Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna! Poi diremo: "Una bestia feroce l'ha divorato!".
Ma Ruben sentì e disse: "Non togliamogli la vita". "Non spargete il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano" (Genesi, 13 – 23).
“Quella di Giuseppe è la storia di tanti – spiega quindi la superiora – ed è anche la storia di Gesù che viene a cercare i figli di Israele. Come Giuseppe va in cerca dei suoi fratelli, anche Gesù cerca noi per portarci al Padre. La parabola di Giuseppe è quindi una parabola della vita con tutto il suo realismo, perché opera una demarcazione tra il vero e l'illusione, tra lo spirituale e l'inganno, l'amore e la menzogna”.
“L’animale feroce che evocano i fratelli di Giuseppe quando pensano di ucciderlo è in realtà l’essere umano – ha fatto poi notare la suora cominciando a chiarire in che modo questa parabola riguarda da vicino ciascuno di noi. Sono i fratelli di Giuseppe le bestie crudeli che lo vogliono divorare, e lo stesso è successo a Gesù quando Giuda lo ha tradito. È difficile comprendere che chi abbiamo vicino ci possa ferire o fare del male. I fratelli di Giuseppe hanno progettato di assassinarlo, per cui non possiamo dire si tratti di un raptus o di un gesto d’impulso. La loro condotta è l’esito del male che hanno dentro”. E cita San Benedetto: “San Benedetto dice che si può provare un moto di stizza o d’ira, ma poi si può decidere se consegnare questo moto a Dio perché lo faccia diventare capacità di perdono e misericordia, o se, invece, lasciarlo evolvere in pensiero malvagio, giudizio, condanna, e anche in omicidio. Tutto dipende da quello che ci abita nel cuore”.

Una storia di salvezza

I figli di Giacobbe scelgono la strada che dà spazio alla cattiveria – continua - e, pur non uccidendo il fratello, lo gettano nudo nel pozzo senza nemmeno l’acqua per sopravvivere (una nudità simile a quella di Gesù, che si spoglia assumendo su di sé la condizione umana) e poi mangiano con tranquillità. È una situazione simile a quelle che spesso sentiamo oggi, quando vengono commessi delitti efferati e poi gli assassini vivono momenti di ordinaria normalità. Allora come oggi l'uomo è uguale, ma dobbiamo essere consapevoli che il male può abitare anche dento di noi. È proprio questa consapevolezza che mantiene alta la vigilanza sui propri pensieri e le proprie condotte. Così come dobbiamo renderci conto che spesso non concediamo il perdono per la volontà di mantenere una posizione di potere e di rancore verso l'altro. Quello che è accaduto a Giuseppe però non è solo ferita e umiliazione, è soprattutto la prima tappa di una storia di salvezza”.

L’abadessa prosegue richiamandosi al testo della Genesi.  “Giuseppe viene poi portato via dai Madianiti e arriva in Egitto - spiega -. Pur essendo schiavo viene apprezzato per le sue doti e mandato a servire Potifàr, che lo mette a capo di tutti i suoi averi. Ma ancora una volta subisce un'ingiustizia: viene accusato dalla moglie di Potifàr, che non accetta di essere stata rifiutata da lui, di essersi approfittato di lei e finisce in prigione. È la seconda tappa della parabola di fede e redenzione di cui si fa portare. In cella, infatti, Giuseppe non rimane bloccato su quello che gli è accaduto, schiavo della tristezza e del rancore. Sa pregare Dio che lo aiuta a perdonare i suoi calunniatori. Ci insegna che non si può allontanare il rancore senza l'aiuto di Dio; che l'ingiustizia ricevuta può essere superata solo attraverso la relazione con Lui; capace di agire in ogni ambito della nostra vita. La sua è la fede del contemplativo, di chi spera nell’opera divina e in silenzio capisce di essere utilizzato da Lui come strumento di salvezza”.
Anni più tardi, dopo essere diventato l'uomo più potente d'Egitto, Giuseppe incontra di nuovo i suoi fratelli, arrivati lì a causa della carestia. All'inizio si mostra duro con loro fingendo di non riconoscerli, ma poi, sentendoli parlare del male che gli avevano fatto senza sapere di essere compresi, si allontana e piange. “Giuseppe non vuole castigare i fratelli o vendicarsi -ha osservato la Madre-, ma aspetta che maturino i tempi per una vera riconciliazione, perché loro siano purificati e pronti ad accogliere il suo perdono”.

Le lacrime come linguaggio del cuore

Poi si è soffermata sul valore del pianto, sul «dono delle lacrime», come lo chiamavano i padri del deserto. “Il pianto non è qualcosa di cui avere vergogna o da cui stare lontano - ha detto -, le lacrime sono parole non verbali, sono una forma di comunicazione, linguaggio del cuore. Uniscono interiorità ed esteriorità e permettono di vivere emozioni che non vengono espresse a parole. Per questo non dobbiamo mai fare finta di niente di fronte alle lacrime dei bambini, degli anziani, di chi soffre.
Attraverso le lacrime Giuseppe vede fratelli, non solo uomini in cerca di pane.
“Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi avete venduto in Egitto. Ma non vi rattristate e non vi arrabbiate con voi stessi. Non temete: se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato per voi un bene. Io provvederò al sostentamento vostro e dei vostri bambini – ricorda la suora raccontando il resto della storia. Ecco la parabola di redenzione, ecco il perdono che dilaga e salva”.
Ma per capire il perdono fino in fondo dobbiamo guardare al sacrificio della Croce – ha precisato in conclusione -, per riuscire a perdonare abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio che intercede per noi: l’essere umano da solo è insufficiente a compiere questo sforzo. E allora chiediamo, attraverso la Parola di Dio e l’eucarestia, che ogni giorno sia data anche a noi la grazia di perdonare.

Micaela Ghisoni

Nella foto, l'incontro in San Raimondo con madre Corradini.

Pubblicato il 17 novembre 2025

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