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Presentato a Bedonia il libro di don Callegari. Storia, letteratura e teologia parlano all’umanità in rima

callegari

Sabato 21 ottobre, presso il Seminario Vescovile di Bedonia, è stata presentata la Cantica, riedita nel periodo pasquale “Fra l’alba e l’occaso” di don Bartolomeo Callegari, sacerdote vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Introdotti dal rettore del Seminario e della Basilica Santuario mons. Lino Ferrari, tre sono stati i relatori: Mariano Vezzali, docente di storia e filosofia oltre che di storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’Emilia, a seguire Rodolfo Marchini, docente di Lettere al liceo scientifico di Borgotaro nonché ex studente del Seminario di Bedonia e, per finire, don Gigi Bavagnoli, docente di teologia e parroco di Borgotaro.

Le ferite del secolo

Un intervento, quello del prof. Vezzali, teso a fornire l’inquadramento storico del testo: “La Chiesa davanti al progetto emancipativo della modernità, tra Ottocento e Novecento: incognite e promesse”. Ebbene, don Callegari – spiega il docente - vive e scrive in un momento storico travagliato per la Chiesa, attaccata da una modernità che, abbracciando l’immanentismo, ha abbandonato trascendenza e fondamento religioso del potere politico. Un periodo di confusione babelica degli stati che i pontefici papa Pio IX e Il successore papa Leone XIII condannano cercando intanto di indicare ai cristiani tutto ciò che per la Chiesa è inaccettabile e insieme sottolineando l’importanza che essi, contrariamente a quanto proibito loro dal “Non expedit”, operino all’interno della società e partecipino attivamente alla vita politica. Tuttavia – continua il professor Vezzali – gli scritti di don Callegari hanno fatto in tempo a conoscere la parabola discendente e fallimentare del progetto della modernità. Una parabola che attenua il contrasto con la Chiesa facendo emergere il fatto che nella storia essa costituisce sempre una sollecitazione per un progresso realmente volto al meglio e per una salvezza che, anche se non sempre riconosciuta, sussiste sempre. “A metà Ottocento, con la prima esposizione universale dei prodotti industriali, dalla società industriale ci si aspettava benessere, integrazione e risoluzione dei problemi e invece, insieme ad invenzioni chimiche utili per evitare carestie, vengono prodotti anche i gas asfissianti, invenzioni utili per la morte di massa” conclude lo storico.

Sui passi di Dante

Viene poi il turno del prof. Rodolfo Marchini e del suo commento critico della Cantica in parallelismo con la Divina Commedia perché innumerevoli le affinità tra le due opere. In entrambe – inizia ad elencare il professore - è innanzitutto evidente il contrasto tra il buio, emblema dell’inferno e la luce, emblema del paradiso, che fa risvegliare dal sogno illuminando il giorno. La scelta poi di don Callegari di rendere omaggio a Gesù Cristo Redentore collocando l’opera nell’anno santo del 1900 non sembra discostarsi molto da quella di Dante che immagina il suo viaggio in corrispondenza della Pasqua del 1300, anno del primo giubileo indetto da papa Bonifacio VIII. Sia il poeta di Firenze sia quello di Caneso dedicano le proprie rime alle figure che hanno svolto per loro un ruolo di guida e sostegno nella visione di Cristo: per il primo Beatrice e per il secondo mamma e papà. Oltre all’analogia sottolineata da Marchini relativa al genere letterario, ossia la cantica di argomento religioso e la visione medievale, vi è anche quella della trama: un viaggio di salvezza morale, spirituale e religiosa, intrapreso a partire da un forte smarrimento. Don Bartolomeo avanza nel cammino di penitenza e purificazione aiutato da San Pietro, dalla Carità e dall’intercessione della Vergine così come Dante compie i riti imposti da Catone e Matelda, aiutato da Virgilio su intercessione delle tre donne benedette Beatrice, Santa Lucia e la Vergine Maria. Ambedue i poeti – prosegue il prof. – non riescono a trattenere né lacrime né afflizione quando vengono abbandonati, se così si può dire, da S. Pietro l’uno e da Virgilio l’altro. Inoltre, il sogno del sacerdote, similmente alla visione artistica dell’Alighieri porta alla conoscenza di Dio e racchiude anch’esso quell’impianto didascalico-allegorico che vede al centro la vicenda dell’umanità nel suo percorso di salvezza. “Don Callegari trasferisce la propria condizione personale a quella di tutti gli uomini che possono salvarsi solo a patto di farsi elevare dal trionfo della Croce” spiega. Ulteriore richiamo tra le due opere su cui Rodolfo Marchini riporta l’attenzione dei presenti è la scelta di adottare lo stesso nobile schema metrico: la terzina a rima incatenata per dare lustro al numero tre, numero della Trinità e delle virtù teologali. Insomma, anche attraverso figure retoriche volte ad esaltare l’apoteosi trionfale di Cristo, entrambi i poeti hanno voluto rendere omaggio al Suo amore infinito.

La collettività della salvezza

“Quella di don Bartolomeo – esordisce don Gigi Bavagnoli – è una lettura estremamente negativa della storia”. Il dramma di un’epoca che, immersa nel male e nel razionalismo, attacca la Chiesa, si riflette nella vicenda personale del poeta il quale, profondamente coinvolto nelle vicende storiche del suo tempo, riflette sulle tentazioni del presente. Tra queste, la paura di cedere e di non mantenersi fedeli alla fede e al ministero pastorale. Il prete di Caneso sottolinea infatti il senso di insicurezza, solitudine e debolezza che il pastore, cioè colui che ha la responsabilità di salvare dalla storia le anime affidategli, può sperimentare e sperimenta. Anche il pastore, in quanto umano, non si salva da sé ma avverte il bisogno di essere gratificato e sostenuto da amicizie e figure guida per poter vivere nel secolo da cristiano e da sacerdote. Don Gigi si sofferma poi sulla centralità della carità, rappresentata nel poemetto sacro dai genitori di don Callegari. “Tra le virtù teologali, la carità è più importante della fede perché, nascendo dall’esperienza concreta ed avendo quindi una forte risonanza affettiva, anima le altre due”. È la madre a salvare il figlio Bartolomeo dall’abbandono e solitudine e a portarlo al crocifisso. Staccandosi dalla madre – continua il teologo – il sacerdote riceve in cambio giustizia, pietà e costanza, necessarie per potersi mantenere fedele alla fede e al ministero pur nelle difficoltà. Chiude l’intervento facendo riflettere sulla figura del padre del poeta. Portavoce dell’esistenza della dimensione escatologica del Paradiso egli invita il figlio a non cercare plausi o gratificazioni sulla Terra ma ad attendere l’univa vera ricompensa del Cielo. Insomma, il dramma della storia non si cancella ma è ridimensionato sotto il segno della croce, questo uno dei messaggi principali che don Bartolomeo ha voluto trasmettere.

Elena Iervoglini

Pubblicato il 4 novembre 2023

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