Alla Camoteca si parla di perdono «fra le pagine» dei Promessi Sposi
Il perdono non dà diritto a una ricompensa. Perdonare, farsi perdonare e perdonarsi sono azioni che fanno parte del proprio dovere. Nel mare magnum che Alessandro Manzoni concentra in un libro che è una delle pietre miliari della letteratura italiana, “I promessi sposi”, il perdono è un passaggio cardine per arrivare al lieto fine. Se ne è parlato alla Camoteca nella serata di “Lunedilibri” del 2 ottobre, condotta dal prof. Fabio Polledri con le letture della prof.ssa Eleonora Marzani. Il perdono è una tappa del percorso di diversi personaggi, ricorda Polledri, quelli che saltano più all’occhio sono indubbiamente la monaca di Monza e Fra Cristoforo. Ma è su altri due personaggi che si concentra l’attenzione: senza il loro percorso travagliato alla ricerca del perdono la vicenda non potrebbe concludersi secondo le aspettative. Parliamo dell’Innominato e di Renzo Tramaglino.
La monaca di Monza e Fra Cristoforo, due storie di redenzione
“I Promessi Sposi contengono diverse storie che mettono al centro il tema del perdono – osserva Fabio Polledri – che ha tre aspetti: due di questi vengono ricordati dal Padre Nostro nei versi «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», il perdono invocato e quello praticato verso l’altro; il terzo è quello che dobbiamo a noi stessi, riconoscendo gli errori per non esserne schiacciati”. Gli unici personaggi “statici” senza un oggettivo ravvedimento, ha spiegato il professore, sono don Abbondio e don Rodrigo. “Fra Cristoforo – dice – è un omicida pentito che chiede perdono alla famiglia dell’uomo che ha ucciso e si porta dietro il «pane» del perdono ricevuto per tutta la vita. E poi c’è la storia affascinante della Monaca di Monza: una donna che ha sbagliato, ma Manzoni non vuole che l’ultima parola su di lei ce l’avessero i suoi errori, non vuole che esca dalla storia con una condanna”. L’espiazione delle colpe di Ludovico avviene “quando sceglie di farsi frate, diventando Fra Cristoforo; quella di Gertrude, che è già monaca, accettando la pena decisa per lei dal cardinale Borromeo, ossia di vivere in una stanzina di due metri per tre nel ritiro di Santa Valeria, dove venivano spedite le monache condannate dal tribunale ecclesiastico e le ex prostitute: lì Gertrude, forse grazie alla preghiera, riesce a ricostruire la propria pace interiore”, fa notare Polledri.
La conversione dell’Innominato
Ma le storie di perdono “cardine” della vicenda sono quelle dell’Innominato e di Renzo. “L’Innominato – spiega – a un certo punto cambia il «campo di gioco» e da cattivo passa dalla parte dei buoni. La sua conversione crea le premesse per il lieto fine del romanzo: senza, Renzo e Lucia sarebbero rimasti sposi promessi. La redenzione dell’Innominato ha inizio quando il male che ha compiuto gli presenta il conto: disgustato, nauseato dalla propria vita vissuta fino ad allora, inizia a sentirsi a disagio. L’uggia, il fastidio, presto si trasforma in ripugnanza per i propri misfatti e poi in ribrezzo, terrore. E allora pensa al suicidio, e si lancia in congetture su cosa sarebbe successo dopo la sua morte: pensa alla gioia dei suoi nemici e alle chiacchiere della gente. Ma poi, nel momento drammatico, si accende la luce: è Lucia (nomen omen) che gliela mostra. Le parole della giovane fanno riecheggiare nella mente dell’Innominato il ricordo di un’altra vita che gli era stata proposta molti anni prima, quella eterna di Dio. In quel momento capisce che è a Dio che deve rendere conto; quindi, neanche la morte può salvarlo. L’Innominato è in un vicolo cieco. Le parole di Lucia sono la sorgente della sua conversione: l’Innominato vede la possibilità di costruire una vita nuova sulla base del perdono di Dio. Nel dilemma tra disperazione e pazzia si apre una terza strada: la consapevolezza di poter essere salvato dal Signore. Qui rinasce l’Innominato. Manzoni mette all’origine di questa conversione il fatto che Dio perdona chi si pente sinceramente”.
La conversione di Renzo
Il secondo personaggio bisognoso di perdono è un insospettabile, uno dei “buoni”, Renzo. “È vero, subisce un’ingiustizia, è una vittima – sottolinea Polledri – ma non si può certo dire che sia il tipo che porge l’altra guancia. Nel suo ricorrente «sogno di sangue», Renzo è seriamente intenzionato a uccidere don Rodrigo. Non sono sfoghi, il desiderio di vendetta è radicato dentro di lui. A trattenerlo è solo la difficoltà oggettiva dell’atto. L’unica persona capace di placare la sua rabbia incontrollata è Lucia, forte e determinata. Se Renzo avesse ucciso don Rodrigo non ci sarebbe stato alcun matrimonio e dunque il lieto fine: se l’avessero preso, sarebbe finito sulla forca; se fosse riuscito a fuggire nel Bergamasco, nella Repubblica di Venezia, avrebbe vissuto da latitante; ma, indipendentemente da tutto, Lucia gli fa capire che non avrebbe mai sposato un assassino. Quando, verso la fine del romanzo, nel pieno della pestilenza, Renzo va al lazzaretto di Milano in cerca di Lucia, incontra Fra Cristoforo che gli consiglia di prepararsi all’eventualità sia di trovarla viva sia di non trovarla. Sono passati venti mesi dal primo «sogno di sangue», ma in Renzo il tarlo della vendetta è ancora vivo. Qui interviene Fra Cristoforo, che si rivolge a Renzo con parole durissime e poi lo caccia via. L’episodio chiave della vicenda avviene quando Renzo, accompagnato da Fra Cristoforo, si reca da don Rodrigo. I due pregano insieme e il giovane Tramaglino perdona il suo nemico. Tuttavia, il frate fa notare a Renzo che perdonare non è altro che il suo dovere, e non gli dà garanzie sul buon esito della ricerca di Lucia. È credente chi è disposto a lodare Dio indipendentemente da tutto il resto”.
Francesco Petronzio
Nella foto, Eleonora Marzani e Fabio Polledri.
Pubblicato il 3 ottobre 2023
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