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L'origine biblica del Giubileo

fotoSIR Calvarese
L’origine biblica del Giubileo tra Antico e Nuovo Testamento. Ogni 50 anni iniziava un tempo speciale

L'istituzione dell’anno giubilare e la stessa parola “Giubileo” risalgono alla Bibbia ebraica, in particolare al libro del Levitico, uno dei cinque libri del Pentateuco. Qui, infatti, compare il termine yobél, precisamente nel cap. 25 (capitolo che - pur piuttosto lungo - andrebbe letto per intero...); i primi versetti che riguardano il Giubileo sono 10-11.

Cosa s’intendeva con “anno giubilare”?
La legge biblica, sempre in questo capitolo, parla di un “anno sabbatico”, cioè un anno di riposo della terra da celebrare ogni sette anni. L’anno giubilare cade invece ogni sette settimane di anni, cioè al cinquantesimo anno, quando tutto Israele deve vivere un anno speciale, modellato sul riposo del sabato.

Oltre a quanto richiesto per l’anno sabbatico, poi, cioè il riposo della terra dalle coltivazioni, l’anno giubilare aggiungeva alcune norme particolari, riguardanti - in sintesi - altri due elementi specifici. Va detto che non sappiamo se tali norme fossero eseguite alla lettera, o in modo più o meno modificato; per la Bibbia, comunque, si tratta di un comando divino da rispettare (in particolare, gli studiosi pensano che avere al cinquantesimo anno un secondo anno consecutivo di riposo dei terreni, senza alcuna coltivazione, fosse molto improbabile).

Un primo elemento proprio all’anno giubilare è la remissione dei debiti e la restituzione dei terreni venduti; questa singolare norma si può comprendere a partire dalla concezione biblica per cui la terra non era un possesso del singolo ma piuttosto della tribù, secondo i territori offerti da Dio, e quindi di ogni membro del popolo. Col Giubileo, allora, Israele poteva ricostituire la situazione originaria della terra, conforme al dono di Dio.

Il secondo elemento specifico dell’anno giubilare era la liberazione degli schiavi: in questo anno doveva terminare per tutti i figli di Israele la condizione di servitù, qualunque fosse il motivo per cui era insorta, e ciascuno ritornava libero alla propria terra (questa norma è ricordata anche altrove, in Ezechiele 46,17).


Nella sinagoga di Nazaret

Passando al Nuovo Testamento, va detto subito che la parola “Giubileo” non vi compare e anche Gesù non fa mai riferimento esplicito all’anno giubilare ebraico. Tuttavia, gli studiosi vedono nel Vangelo secondo Luca un chiaro riferimento al Giubileo biblico. Per questo, Luca è considerato il Vangelo più adatto ad accompagnare il nostro Giubileo (e, per una bella coincidenza, sarà proprio il Vangelo letto nelle messe domenicali del 2025).
Il brano in questione è un episodio iniziale del vangelo, in cui Gesù - nella sinagoga di Nàzaret - legge un passo del profeta Isaia (Is 61,1-2) in cui si parla dell’“anno di grazia del Signore” (Luca 4,18-19).

Perché questo brano c’entra con il Giubileo? Un primo legame è dovuto alle parole utilizzate: nel Vangelo compare infatti qui, per due volte, quel termine áphesis, che nella Bibbia greca indicava proprio il Giubileo: Gesù proclama la “liberazione”, la “remissione”. E poi parla di “anno di grazia”, inaugurato dall’avvento del Messia (che è Gesù stesso!), apportatore di gioia e salvezza, in modo anche molto tangibile: lieto annuncio ai poveri, libertà ai prigionieri e agli oppressi, vista ai ciechi. In pratica, un vero e proprio anno giubilare!


Il Messia

Se cogliamo il suggerimento del Vangelo, ecco che si dischiude una nuova dimensione, per vivere in concreto il tempo del Giubileo secondo la misericordia di Dio, in base all’insegnamento di Gesù. Così, sia l’antica tradizione biblica, sia la novità portata da Gesù, possono essere una guida importante per vivere l’anno giubilare che inizia alla fine del 2024. Un’occasione per riconoscere che il tempo, la terra e la vita sono doni di Dio. L’opportunità di accogliere l’invito di Gesù a riconoscerlo come liberatore e Messia e seguirlo nel suo vivere a servizio di chi è nel bisogno, mediante quel lieto annuncio che è il Vangelo e che ogni uomo, anche in questa epoca tormentata, attende.

Don Paolo Mascilongo

Come nasce la parola giubileo
Dall’ebraico yobél (ariete) al greco áphesis (liberazione e perdono) al latino iobeleus (giubilo)

Gli studiosi sono concordi nel far risalire il termine all’ebraico yobé́l, il cui significato in origine rimanda al “montone/ariete” e, anche, al suo “corno”, utilizzato come strumento musicale per segnalare momenti importanti della vita religiosa o militare.
Per estensione, tuttavia, il significato principale diviene proprio “anno giubilare”, che si ritrova 21 delle 27 volte in cui il termine compare nell’Antico Testamento (negli altri 6 casi significa “corno”).

Invece, l’antica versione in greco della Bibbia (la LXX/Settanta - versione conosciuta e usata al tempo di Gesù), traduce yobé́l utilizzando un termine diverso, già esistente in greco, e dal significato proprio: áphesis, che significa “remissione”/“liberazione”/“perdono”; la scelta dei traduttori greci è stata evidentemente quella di puntare sul significato, non sul suono della parola.
Così, la parola specifica “Giubileo” in greco si perde e, per questo, non compare mai nel Nuovo Testamento, scritto anch’esso in greco.

Solo più tardi, quando il grande studioso Girolamo (nel IV secolo) tradusse la Bibbia dall’ebraico al latino, vediamo tornare il suono della parola yobél, che viene infatti resa con il termine iobeleus.
Si può pensare che la scelta sia stata dettata sia dalla volontà di rispettare la pronuncia ebraica (yobé́l e iobeleus si somigliano!), sia dalla presenza in latino della parola iubilum, che significa “giubilo”, e che si poteva giustamente associare al significato di festa presente nell’anno giubilare.

Pubblicato il 16 dicembre 2024

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  • Un libro per capire le differenze tra cristianesimo e islam e costruire il dialogo

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    “La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi è di coniugare la più leale e condivisa partecipazione al dialogo interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo”. Con questa citazione del cardinale Raniero Cantalamessa si potrebbe cercare di riassumere il senso e lo scopo del libro “Verità e dialogo: contributo per un discernimento cristiano sul fenomeno dell’Islam”, scritto dal prof. Roberto Caprini e presentato di recente al Seminario vescovile di via Scalabrini a Piacenza grazie alle associazioni Confederex (Confederazione italiana ex alunni di scuole cattoliche) e Gebetsliga (Unione di preghiera per il beato Carlo d’Asburgo).

    Conoscere l’altro

    L’autore, introdotto dal prof. Maurizio Dossena, ha raccontato come questa ricerca sia nata da un interesse personale che l’ha portato a leggere il Corano per capire meglio la spiritualità e la religione islamica, sia da un punto di vista storico sia contenutistico. La conoscenza dell’altro - sintetizziamo il suo pensiero - è un fattore fondamentale per poter dialogare, e per conoscere il mondo islamico risulta di straordinaria importanza la conoscenza del Corano, che non è solo il testo sacro di riferimento per i musulmani ma è la base, il pilastro portante del modus operandi e vivendi dei fedeli islamici, un insieme di versi da recitare a memoria (Corano dall’arabo Quran significa proprio “la recitazione”) senza l’interpretazione o la mediazione di un sacerdote. Nel libro sono spiegati numerosi passi del Corano che mettono in luce le grandi differenze tra l’islam e la religione cristiana, ma non è questo il motivo per cui far cessare il dialogo, che secondo Roberto Caprini “parte proprio dal riconoscere la Verità che è Cristo. Questo punto fermo rende possibile un dialogo solo sul piano umano che ovviamente è estremamente utile per una convivenza civile, ma tenendo sempre che è nella Chiesa e in Cristo che risiede la Verità”.

    Le differenze tra le due religioni

    Anche il cardinal Giacomo Biffi, in un’intervista nel 2004, spiegò come il dovere della carità e del dialogo si attui proprio nel non nascondere la verità, anche quando questo può creare incomprensioni. Partendo da questo il prof. Caprini ha messo in luce la presenza di Cristo e dei cristiani nel Corano, in cui sono accusati di aver creato un culto politeista (la Santissima Trinità), nonché la negazione della divinità di Gesù, descritto sempre e solo come “figlio di Maria”. Queste divergenze teologiche per Caprini non sono le uniche differenze che allontanano il mondo giudaico-cristiano da quello islamico: il concetto di sharia, il ruolo della donna e la guerra di religione sono aspetti inconciliabili con le democrazie occidentali, ma che non precludono la possibilità di vivere in pace e in armonia con persone di fede islamica. Sono chiare ed ampie le differenze religiose ma è altrettanto chiara la necessità di dover convivere con persone islamiche e proprio su questo punto Caprini ricorda un tassello fondamentale: siamo tutti uomini, tutti figli di Dio. E su questo, sull’umanità, possiamo fondare il rispetto reciproco e possiamo costruire un mondo dove, nonostante le divergenze, si può convivere guardando, però, sempre con certezza e sicurezza alla luce che proviene dalla Verità che è Gesù Cristo.

                                                                                                   Francesco Archilli

     
    Nella foto, l’autore del libro, prof. Roberto Caprini, accanto al prof. Maurizio Dossena.

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