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Il racconto dell’estate /2
Dopo la guerra, nuovi orizzonti

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Sperare contro ogni speranza

La Seconda Guerra Mondiale scoppiò, portando ovunque con sé il suo drammatico carico di morte, disperazione, orrore.
Prima che il conflitto arrivasse a sconvolgere anche il varesotto, Vittorio aveva avuto il tempo di cambiare lavoro due o tre volte: dopo un paio d’ anni alla Verga casalinghi come garzone, fece il fattorino per una libreria religiosa del centro e infine approdò all’Aermacchi, come operaio “marcatempo”.
Cambiavano gli impieghi e gli orari, ma la vita di Vittorio al di fuori del lavoro era sempre la stessa: tutto il suo tempo libero, lo trascorreva in parrocchia, non solo cercando di migliorare la distribuzione della “buona stampa”, ma anche dandosi da fare per tenere a bada i ragazzini scatenati che frequentavano l’oratorio e partecipando attivamente alle riunioni dell’Azione Cattolica.

Era diventato istruttore dei vari aspiranti chierichetti che le madri spedivano a giornate intere in parrocchia, per toglierli dalle strade.
Ed era talmente appassionato di liturgia e ferrato in materia, che fu nominato cerimoniere della Cattedrale. Un incarico importante che richiedeva precisione, preparazione, competenza. Tutti requisiti che Vittorio aveva e in abbondanza, anche perché la passione per la liturgia lo accompagnava da sempre e ad essa, col tempo, aveva abbinato lo studio attento del cerimoniale ufficiale vaticano, che applicava alla lettera.
Si era talmente specializzato nel settore, da essere unanimemente considerato l’esperto più preparato di tutta la chiesa varesina; tanto che a lui si rivolgevano i parroci quando si trovavano in vista di qualche liturgia solenne.

Quando gli echi della guerra cominciarono a farsi sentire anche a Varese, Vittorio non rimase con le mani in mano: dapprima entrò a far parte di un’organizzazione clandestina che si occupava di espatriare in Svizzera ebrei e sbandati di tutti i tipi; quindi si aggregò ad una formazione partigiana di impronta cattolica, la “Lazzerini”, per evitare la chiamata alle armi.
Quando però la pressione dei nazi-fascisti si fece talmente pericolosa da potersi trasformare da un momento all’altro in reale possibilità di morte o deportazione in Germania, si vide costretto egli stesso ad espatriare, insieme ad un gruppuscolo di commilitoni.

Era il 1° agosto 1944: Vittorio e i suoi compagni di fuga, con un viaggio rocambolesco e avventuroso, attraversavano il confine.
Per farlo dovettero guadare il Tresa, un fiume a carattere torrentizio, impetuoso e pieno di insidie, le cui acque turbinose strapparono violentemente dalle mani di Vittorio la valigetta con i suoi effetti personali: poche cose che gli sarebbero dovute servire una volta approdato in Svizzera, ma delle quali dovette, suo malgrado, fare a meno. Non gli restò che guardarla malinconicamente andare via veloce, sbattuta dalla violenza delle acque. Mentre lui rimase così, con un palmo di naso.
Addio valigia. Inseguirla non era pensabile: non solo a causa della corrente, ma anche perché era meglio non rimanere molto allo scoperto, per non farsi notare dai tedeschi.

Un sospiro e via: il viaggio era ancora lungo. E non soltanto per lui, ma anche per quella sua famosa valigetta che venne in seguito rinvenuta per caso da un valligiano e raccolta dalla sponda del fiume dove si era finalmente arenata.
Sopra vi erano impressi il nome e il recapito del proprietario, perciò non fu difficile per quel signore riconsegnarla qualche tempo dopo alla signora Carmelina, insieme alle ovvie condoglianze.

La povera donna dovette sentirsi morire nel vedersi recapitare la valigetta mezza consumata dalle acque e ascoltare la storia del suo ritrovamento.
Si rifiutò tuttavia di farsi prendere dalla disperazione e non volle mai arrendersi all’idea che il suo Dodo fosse morto.
Vittorio era vivo, doveva essere vivo, per forza. E per far sì che il suo amore di madre fosse più forte dell’apparenza di una realtà tragica, per mesi e mesi, tutti i giorni, percorse a piedi i sette chilometri che la separavano dal Sacro Monte di Varese, per chiedere alla Madonna la grazia che suo figlio tornasse a casa sano e salvo.
Non solo. Ogni sera, tanto per chiarire cosa voglia dire sperare contro ogni speranza, mamma Carmelina quando metteva la cena in tavola, preparava sempre un piatto in più: caso mai Vittorio fosse tornato all’improvviso.
Il buon Oreste scuoteva la testa, ma nemmeno lui aveva il coraggio di dirle qualcosa.
Anche se poi, al momento di riporre il piatto pulito, una lacrima di delusione doveva solcare il volto tirato di entrambi.

In Svizzera Vittorio rimase ben 14 mesi, in campi di concentramento per rifugiati stranieri.
Nell’aprile del 1945 la guerra finalmente finì, ma Vittorio non riuscì a tornare a casa subito. Per farlo dovette aspettare fino al 5 luglio successivo.
Fu un incontro indimenticabile: poche parole, tante lacrime, finalmente si poteva tornare a sorridere.
La fede, quella vera, granitica, incrollabile aveva vinto. Ancora una volta.


La svolta economica...

Finita la guerra, la vita ricominciò a girare come prima.
Vittorio riprese il lavoro all’Aermacchi e divenne collaboratore della Pontificia Opera di Assistenza (la Caritas di quei tempi) per soccorrere i reduci di guerra ancora trattenuti nei campi di concentramento e bisognosi di tutto: cibo, vestiti, medicine.
Nel suo lavoro assistenziale si dedicò in modo particolare alla gioventù. Diresse comunità e colonie estive marine per ragazzi, organizzate dalla diocesi.
Ce la sapeva fare, con i giovani. Era un tipo severo, di quelli anche un po’ burberi, ma che sapevano farsi ben volere dai giovani, che con lui si trovavano bene.

Fu in questo periodo della sua vita che cominciò a riflettere su come avrebbe potuto fare per migliorare la sua posizione lavorativa.
La guerra era ormai finita, si era in piena fase di ricostruzione: finalmente si poteva guardare avanti, direzione futuro. Inizialmente pensò di farlo mettendosi nel business dell’impresa mortuaria.
Ma una frase di un caro amico lo folgorò e gli fece cambiare idea in un baleno. Gli disse: “Vittorio, tu sei fatto per far stare bene i vivi, non i morti!”.

Non se lo fece dire due volte.
Con un pizzico di fortuna e tanta intraprendenza, acquistò un’ex cascina in piazza Beccaria a Varese e la riadattò a ristorante.
Nel giro di poco tempo, il ristorante “Da Vittorio” divenne uno dei locali tipici più famosi dell’intera Lombardia, frequentato da vip e gente importante. Uno di quelli dove bisogna prenotare una settimana prima per un tavolo.
I clienti percorrevano anche diverse decine di chilometri per gustare le specialità popolari della mamma Carmelina, che ai fornelli era imbattibile.
Carmelina-Vittorio: un’accoppiata vincente. Lei in cucina, lui in sala: lei tra le pentole, lui tra i tavoli. Fu un successo.
La gente impazziva per i tortelloni alla ricotta di mamma Carmelina, gli ossi buchi alla caseula, le celeberrime crespelle “alla Vittorio”.
Gli affari andavano a gonfie vele.

Vittorio aveva 
una trentina
 d’anni e non poteva chiedere nulla di meglio dalla vita... almeno da un punto di vista puramente umano.
Soldi, salute, notorietà e soprattutto un futuro che annunciava una vita nella tranquillità economica: un brivido che in casa sua non era mai stato sperimentato prima di allora.

Eppure, nonostante tutto andasse benone, Vittorio sentiva dentro come una sottile inquietudine, un velo di insoddisfazione che non riusciva mai a cacciare completamente.
Mantenne sempre il suo impegno di cerimoniere della Cattedrale, riuscendo quasi miracolosamente a conciliarlo con i pressanti impegni di lavoro.
Era un uomo intelligente, tenace e volitivo.
Seppe fare in modo che il lavoro, per quanto importante fosse diventato nella sua vita, non lo distogliesse mai dalla presenza in chiesa, che mantenne assidua, fedele, costante.
Pareva quasi che la sua vita sarebbe andata avanti per sempre così, tra una funzione in chiesa e un piatto di zuppa alla montanara.
Ma il Signore aveva altri progetti su quest’ uomo, che avrebbe ben presto trasformato in “ristoratore” di ben altra e più affamata clientela.

... e quella umana

Fu un incontro. Un attimo.
Un soffio di Spirito Santo e la vita di due perfetti sconosciuti, come per incanto, si intrecciò fino a dare origine ad un singolare quanto inedito binomio: un vescovo e il suo uomo.
O un uomo e il suo vescovo.
Due operai della stessa vigna.

Fu l’arrivo a Varese del nuovo prevosto della Cattedrale, Enrico Manfredini, ad imprimere una svolta, e questa volta definitiva, alla vita di Vittorio.
Enrico Manfredini: un ciclone di intelligenza, audacia evangelica, attività pastorale, bontà, generosità, da tempo andava cercando il suo “braccio secolare”. Uno cioè, che avrebbe potuto aiutarlo a tradurre in azione tutto quel pullulare di idee, intuizioni, desideri che popolavano la sua mente acuta di uomo di Dio, sensibile al grido di sofferenza dell’umanità.

Tutto ebbe inizio con un pellegrinaggio.
Si badi bene: non una gitarella qualsiasi, un pellegrinaggio in grande stile. In occasione del centocinquantesimo anniversario di fondazione della città di Varese, Manfredini doveva organizzare un pellegrinaggio a Roma, al quale avrebbero partecipato qualcosa come duemila
persone, una più una meno.
La faccenda era importante. C’era da risolvere il problema dei treni, del soggiorno nella capitale, dell’incontro con il Presidente della Repubblica, nonché dell’udienza col Papa, Paolo VI, al quale tra l’altro un anziano sacerdote varesino doveva donare un calice.
Ci voleva una persona in gamba, per organizzare tutto al meglio ed evitare il disastro.
Manfredini era preoccupato e cercava disperatamente qualcuno che potesse aiutarlo.
Gli fu suggerito di rivolgersi a Vittorio, un tipo pratico, attento, organizzatore capace e puntuale, gli dissero.
Questi, non se lo fece dire due volte. In quell’impegno, il buon Vittorio, come suo solito, ci si buttò a capofitto e i risultati non tardarono: il pellegrinaggio fu un successo e soprattutto segnò l’inizio di un sodalizio che non avrebbe avuto più fine, quello tra Vittorio e mons. Manfredini.

Come facesse Vittorio a trovare il tempo per fare e disfare mille cose, oltre ai tavoli del suo ristorante, non lo sappiamo.
Sappiamo solo che questo fu forse solo il primo di una lunga serie di miracoli di moltiplicazione del tempo, dei talenti e soprattutto dei pani di cui fu protagonista nella sua esaltante vita.

Gaia Corrao

Nella foto, Vittorio con papa Paolo VI.

Pubblicato il 4 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi

Verso la festa della Devota della Costa / 4

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Ai primi di agosto la Val Ceno, in provincia di Parma ma diocesi di Piacenza-Bobbio, è in festa per la Devota della Costa, al secolo Margherita Antoniazzi, serva di Dio, religiosa del ‘500, ancora oggi nel cuore della popolazione della sua terra.
Vogliamo preparare le celebrazioni ripercorrendo grazie a Gaia Corrao la sua vicenda umana. Ecco la quarta puntata.

La carità prima di tutto

Margherita era piccola di statura, con un bel viso sempre sereno e mite. Teneva sempre lo sguardo abbassato, mai superbo o altezzoso.
Per camminare si appoggiava ad un bastoncino, perché i postumi della peste l’avevano lasciata claudicante per sempre.
Nell’altra mano immancabile, il rosario che sgranava in continuazione durante la giornata.

Affabile e dolce, Margherita trattava tutti con rispetto e nutriva un amore particolare per i bambini, che amavano radunarsi attorno a lei.
Era tuttavia dotata di un carattere forte e volitivo, che la portava a non indietreggiare mai di fronte alle difficoltà.
Trascorreva la maggior parte delle ore del giorno e anche buona parte di quelle della notte prostrata in ginocchio a pregare.
Spesso la si vedeva in contemplazione estatica.

La tradizione narra che Margherita conversasse con la Madonna, con san Michele e con il suo angelo custode, come si potrebbe fare con il vicino di casa.
Con la forza della preghiera superava tentazioni, malinconie, aridità spirituali.
Mantenendo l’abitudine presa fino da ragazzina, Margherita si concedeva pochi sonni e brevi, presi per lo più sul duro pavimento della sua povera cella o su pungenti fascine di ginepro. Come cuscino usava una pietra.

Frutto concreto di una vita spirituale così rigida ed esigente, la sua ardente carità che esercitava instancabilmente verso tutto e tutti.
Alle migliaia di poveri che dalla fondazione del monastero fino alla sua morte bussarono alla sua porta, non negò mai il soccorso materiale e una parola di consolazione.
Per aiutare i più sfortunati, giungeva persino a privarsi del cibo e degli indumenti personali.

Quando divenne superiora del monastero poi, la sua carità si fece addirittura traboccante.
Le suore di quel minuscolo monastero di montagna, che vivevano nella più stretta povertà, avevano sempre mezzi sufficienti per soccorrere chiunque ricorresse al loro aiuto.
Nel frattempo la Divina Provvidenza benediceva abbondantemente la generosità di quelle suorine coraggiose, rifornendole di tutto quanto necessitavano per continuare la loro missione a favore dei più poveri.

A chiunque si rivolgesse a lei, Margherita, che ormai tutti chiamavano la Devota della Costa, senza pensarci due volte donava a piene mani farina, vino, pane e persino scarpe.
Così ridistribuiva tra i tanti diseredati dispersi per quei monti, i fiumi di elemosine e donazioni che a sua volta riceveva dai fedeli.
Mai nessuno se ne tornava a casa a mani vuote.

Margherita aveva una grande attenzione per il dono della vita che la rendeva particolarmente sensibile ai problemi delle puerpere e dei neonati.
Quando veniva a sapere che c’era qualche mamma che non aveva panni per il bambino o che aveva difficoltà ad allattarlo o ad allevarlo convenientemente, subito si preoccupava di aiutarla mandando panni per vestirlo che otteneva strappando le lenzuola del monastero, nonché pane, olio, cacio, uova, zucchero.
Amava poi tenere quei bimbi a Battesimo ed essi diventavano così suoi figliocci.

Le Margheritine la osservavano ammirate da tanta generosità, anche se a volte facevano fatica a fidarsi della Provvidenza così come faceva la Devota.
Accadde infatti un giorno che Catella, pur nutrendo un grande amore per la sua superiora, la riprese osservando che se avesse continuato a donare tutto agli altri, alla fine non sarebbe rimasto niente per le sorelle del monastero.
Al che Margherita rispose sorridendo: “Non temere di ciò, mia cara Catella, perché la elemosina non impoverisce. Anzi, a dirtela schietta, fa fiorenti le case che la esercitano e tanto più fiorenti quanto più abbondano in dispensarla. Dunque, quando io sarò morta, vorrete voi dispensare più moderate elemosine? Ve ne guardi il cielo, poiché questo sarebbe un lavorarvi a vostre mani la vostra irreparabile rovina, perché Iddio vi mancherà”.
Da quel giorno, narra la tradizione, Margherita prese a raddoppiare la dose di viveri che dava in elemosina a ciascun povero e a fine anno le suore trovarono nella dispensa esattamente il doppio delle provviste raccolte l’anno precedente.


Precorse i tempi e non fu compresa

Un’altra grande intuizione di Margherita fu quella di togliere i bambini dalla strada e dall’accattonaggio, offrendo loro un luogo dove potessero imparare a leggere e scrivere.
Si trattava di una trovata addirittura rivoluzionaria per l’epoca.
In un tempo in cui tra le famiglie povere ci si preoccupava di tutto meno che dell’istruzione dei più piccini, avendo ben altri e gravi problemi da affrontare ogni giorno, l’idea di una scuola per bambini poveri era davvero futuristica.
La Devota pensò che togliere quei bambini dalla strada avrebbe significato offrire loro la chance di un futuro migliore, un futuro in cui avrebbero saputo come muoversi in un mondo spesso ostile. Quel minimo di cultura e formazione cristiana che la scuola offriva loro, sarebbe stata la via per l’emancipazione da una vita di miseria e di soprusi.
Soprattutto riempire le giornate di quei bimbi con attività costruttive e formative, li avrebbe allontanati da una mentalità elemosiniera e svogliata che capita di riscontrare tra i più poveri, rassegnati a rimanere per sempre in quella condizione di difficoltà.

Al tempo in cui visse la Devota della Costa stavano cominciando per la prima volta a fiorire istituzioni per bambini poveri qua e là in giro per l’Italia, tutte ad opera di grandi santi come Filippo Neri, Girolamo Emiliani, Angela Merici e numerosi altri, ma nella diocesi piacentina e ancor più nel territorio della montagna, quella ideata da Margherita Antoniazzi fu assolutamente la prima.
E la sua opera fu ancor più meritoria, se di gradi di merito si può parlare in certi casi, in quanto la Devota diversamente dai citati santi, era assolutamente illetterata e non frequentò mai gli ambienti colti e raffinati della città.

Le fonti raccontano di due insegnanti nel monastero di Caberra: suor Maria Bracchi, nipote della Devota e suor Margherita Marcellina di Tornolo.
La scuola aperta a bambini e bambine, offriva un essenziale programma di insegnamento elementare, qualche nozione di catechismo, oltre alla possibilità di un pasto frugale ma sufficiente, che non poteva essere fornito dalle famiglie dei ragazzi.

Margherita precorse i tempi. Per questo non sempre fu capita.
Non solo la scuola per i bambini poveri era una novità, ma anche lo stile di vita delle Margheritine era del tutto insolito per quei tempi.
All’epoca infatti non si concepiva un istituto femminile se non salvaguardato dalla clausura.
L’unica vita religiosa ammessa per le donne era quella monastica, tutta dedita al servizio di Dio.

Margherita si colloca nella scia di quelle donne che nel 1500 diedero vita a un movimento di rinnovamento dal basso che confluì poi nella Riforma cattolica.
La Chiesa attraversava acque agitate: sono gli anni dello strappo con i protestanti.
Le risposte alla crisi interna ed esterna vennero non solo dal Concilio di Trento, ma anche dalla base. E qui si inserisce l’opera del tutto innovativa della Devota.
Solo un esempio: quando il vescovo riformatore di Piacenza, il beato Paolo Burali, fonda nel 1568 in Santa Maria in Cortina la scuola di catechismo e di alfabetizzazione, quella di Costageminiana era sorta già da circa trent’anni.

La cosa che più stupisce è che Margherita è sempre vissuta tra le cime dei suoi monti, lontana dal fragore del mondo e dalle novità della storia; ma una sensibilità straordinaria l’aveva resa al passo coi tempi, anzi addirittura antesignana in ciò che faceva.

All’indomani della morte della Devota avvenuta nel 1565, gli ecclesiastici recatisi in visita al monastero pur restando fortemente impressionati dalla vita santa di quel pugno di religiose, dedite alla preghiera, alla penitenza e alla carità, rimasero anche perplessi per il modo del tutto nuovo in cui quella vita si svolgeva, ponendo delle donne fragili e semplici in prima linea, esposte ai pericoli di un contatto continuo con accattoni, briganti e avventurieri.
Temendo che la forza dirompente della carità non fosse sufficiente a tutelarle dai pericoli di una società violenta, preferirono la garanzia delle sbarre e dei muri invalicabili dei monasteri soggetti alla clausura.
Fu così che nel 1599 il monastero inaugurato a Costageminiana da Margherita Antoniazzi nel 1533 e all’epoca ancora in piena attività, fu trasferito a Compiano, nella Val Taro, dove ne era stato costruito uno nuovo, ugualmente dedicato alla Santissima Annunziata, ma nel quale le Margheritine avrebbero dovuto vestire l’abito di Sant’Agostino, adeguandosi alla nuova regola nonché alla vita di clausura.

Il distacco da Costageminiana dovette essere traumatico: le religiose lasciarono non solo il luogo in cui erano nate e nel quale si custodivano le spoglie mortali dell’amata fondatrice, ma anche cambiavano completamente stile di vita.
Non avrebbero più accolto i bambini della scuola, che ogni giorno rallegravano il monastero con le loro grida e i loro giochi, non avrebbero più potuto nemmeno dedicarsi ai tanti poveri che bussavano quotidianamente alla loro porta per chiedere aiuti o preghiere.
Ciononostante le monache ubbidirono e si trasferirono, sia pur col nodo alla gola, in quella che sarebbe diventata la loro nuova casa.

In questo modo, si annacquava per sempre il carisma delle Margheritine, che col tempo finirono per confondersi del tutto con le altre religiose del monastero di Compiano, tutte riunite sotto la regola di Sant’Agostino.
Non che ci sia qualcosa da ridire sulla regola agostiniana, la regola non c’entra. Il problema in quel caso fu che suore nate con un’altra vocazione dovettero rassegnarsi ad uno stile di vita che non era il loro, per il solo fatto di non essere state comprese dai contemporanei.

Questo trasferimento decretò col tempo la fine dell’esperienza delle Margheritine e il tramonto di un’avventura che avrebbe potuto diffondersi in molti luoghi, se solo l’ottusità degli uomini non avesse soffocato il soffio dello Spirito Santo che così potentemente aveva soffiato nel cuore di Margherita.

Gaia Corrao


Pubblicato il 23 luglio 2019

Le puntate precedenti:
1 - Margherita, una religiosa nel cuore del Cinquecento
2 - Alla grotta della Rondinara
3 - Non solo la chiesa, ma anche il monastero

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