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Il racconto dell’estate /1
A 25 anni dalla morte di don Vittorione. Prima puntata

vitt1 chierichetto
Diventare prete: fu il primo, grande desiderio della sua vita.
La voglia gli venne forse per la prima volta quando, ancora piccolissimo, i suoi genitori la domenica mattina lo portavano alla messa.

Doveva avere più o meno tre anni.
Guardava incantato, gli occhi sgranati e la bocca aperta, il sacerdote che celebrava, i suoi strani abiti lunghi e fruscianti, quella gestualità arcana che parlava di cose misteriose, i movimenti lenti e solenni, mentre l’odore dell’incenso e delle candele tutto intorno riempiva l’aria.

La sua ammirazione estatica e forse anche una punta di infantile invidia, era poi tutta per quei fortunatissimi bambini ammessi a stare vicini al prete e vestiti più o meno come lui, che lo aiutavano a mescolare certe ampolline di vetro proprio nel bel mezzo della messa e gli stavano accanto al momento della Comunione.
Chierichetto: un giorno, da grande, lo avrebbe fatto anche lui!
E poi, una volta cresciuto sarebbe diventato prete. Non c’erano dubbi.

Questi erano quasi certamente i sogni che popolavano la mente del piccolo Vittorio.
Sogni che il passare del tempo non alterò, ma che non sarebbe stato facile, almeno in parte e per molte diverse circostanze, realizzare.
In Cielo però, c’era chi faceva il tifo per lui.

Vittorio Pastori era nato in una chiara mattina di primavera, il 15 aprile 1926, nella povera casa dei signori Oreste e Carmelina, affacciata sul piazzale della Basilica di San Vittore a Varese.
Fu il loro unico figlio.
Il papà, ciabattino, lavorava in un calzaturificio di Varese; la mamma, casalinga, per aiutare le magre risorse della famiglia, faceva le stagioni agli impianti di lavaggio delle bottiglie presso uno dei primi grandi stabilimenti di produzione della birra in Italia, la Poretti.
In famiglia vivevano anche i nonni paterni e uno zio mutilato di guerra.

Nacque Vittorio e fu una grande gioia per tutti.
Dodo, così lo chiamavano, fu teneramente amato da tutta la sua famiglia e crebbe in un ambiente povero ma sereno il cui perno era, neanche a dirlo, la mamma, la signora Carmelina: una donna profondamente religiosa, grande lavoratrice dal temperamento talmente autoritario, da meritarsi l’epiteto di “generalessa”.
Di estrazione contadina, si era trovata fino da piccola a dover fare i conti con la durezza della vita quando, rimasta prematuramente orfana di madre, aveva dovuto prendersi cura quasi da sola de- gli undici fratelli minori, che crebbe tutti con polso fermo e deciso.
Un misto di amore e fermezza, la signora Carmelina, che esercitò sempre un forte ascendente sul figlio Vittorio, affascinato da quel suo saper essere donna e donna di fede.
Non mancava mai una messa e ogni mattina si fermava a pregare almeno dieci minuti in ginocchio dinanzi alla statua della Vergine Addolorata, nella Basilica di San Vittore.

A due anni, il piccolo Dodo fu portato a vivere in campagna, a Sant’ Ambrogio Olona, dalla nonna materna Maria.
Qui imparò ad apprezzare la vita ruspante, sempre all’aria aperta a rincorrere le galline nel cortile della casa e a bere il latte caldo della mucca appena munto. E quando il sabato la nonna faceva il pane nel forno a legna, era una festa per tutti i bimbi del cortile.
Ogni domenica mattina poi, immancabilmente, arrivavano papà Oreste e mamma Carmelina a trovare il loro amato bimbo.

Per prima cosa lo prendevano e se lo portavano alla messa.
Andavano fino alla chiesetta della Rasa, lontana un paio di chilometri, da percorrersi rigorosamente a piedi, con le scarpine di pelle che il babbo aveva confezionate per lui; scarpine che si usavano solo la domenica, mentre gli altri giorni si andava in giro scalzi... appunto per non consumare le scarpe.
A quei tempi la povertà, quella vera, costringeva anche i bambini a tanti piccoli e grandi sacrifici, che oggi per noi sarebbero impensabili.
Eppure crescevano, scalzi ma felici; capaci anzi, forse, di dare valore ad un paio di scarpe.

Vittorio rimase presso la nonna fino all’ età di cinque anni.
Dopodiché fece ritorno a casa sua a Varese e l’anno successivo iniziò a frequentare l’oratorio Veratti, di cui conservò sempre un entusiastico ricordo.
All’oratorio ci andava non solo per giocare, ma anche per impegnarsi nei primi semplici servizi che gli venivano richiesti, tipo quello di diffondere la cosiddetta “buona stampa”.

Si mise così a fare lo strillone per uno dei giornaletti parrocchiali e lo faceva con grande zelo.
Il suo sogno nel cassetto comunque, era sempre quello di fare il chierichetto.
Un sogno ormai talmente vicino da trasformarsi presto in realtà. E il piccolo Vittorio passò, tutto orgoglioso, dall’altro lato dell’altare.


Quella promessa alla Madonna

La chiesa e l’oratorio erano diventati la sua seconda casa.
Partecipava a tutte le funzioni liturgiche e non perdeva un incontro della dottrina. Non fosse altro, per ricevere a fine lezione le caramelle dalla catechista!
Ma non erano tanto quelle ad incentivarlo, quanto il seme di una fede solida e robusta che, gettato in lui fin da piccolissimo, andava ora germogliando.

A imitazione della mamma, ogni mattina si fermava almeno per una decina di minuti davanti alla statua della Madonna Addolorata nella basilica di San Vittore.
Si inginocchiava e a lei apriva il suo cuore, con lei si confidava, come si fa con una madre.
Fu proprio in uno di questi momenti di intenso dialogo interiore con la Madonna, che Vittorio sentì più forte del solito il desiderio di farsi prete.
Quelli però, non erano tempi facili per gli aspiranti preti. Soprattutto se squattrinati, perché il Seminario costava, e non poco.

Terminate le scuole medie, Vittorio aveva iniziato a frequentare il ginnasio, in vista appunto di un successivo ingresso in Seminario.
Ma la scuola costava troppo e la famiglia non ce la faceva a mantenerlo. Non fu possibile farlo continuare a studiare.
Vittorio capì le difficoltà dei suoi. Capì anche il loro imbarazzo nel dovergli chiedere una così grande rinuncia.
Ma fu ugualmente un colpo durissimo per lui. Il fatto di capire non attenuò la sofferenza.
Crollava irrimediabilmente il sogno di una vita: farsi prete.

Dopo l’iniziale smarrimento, non si perse d’animo. Era un tipo che sapeva adattarsi alle circostanze, lui. E, pur col dispiacere nel cuore, si diede da fare per cercare un lavoro e aiutare la famiglia a sbarcare il lunario.
Trovò un impiego presso una fabbrica di piatti e casalinghi nel centro di Varese. Faceva il garzone di negozio e il ragazzo delle consegne a domicilio.
Non era un lavoro molto gratificante, ma Vittorio si sforzò di fare buon viso a cattivo gioco. Mai un lamento, mai una mancanza di rispetto verso i superiori, grande lavoratore: seppe farsi ben volere da tutti.
Anche se dentro di sé, sentiva di essere fatto per altre cose.

Quel poco tempo libero che gli rimaneva, fuori dei suoi duri turni di lavoro, lo spendeva tutto tra l’oratorio, la parrocchia e la chiesa, che continuava a frequentare il più assiduamente possibile.
Lì sì che si sentiva a casa sua. Lì sì che gli pareva di tornare a respirare, come un pesce che venga rimesso nell’ acqua.
Pativa dentro di sé la distanza abissale tra la vita che gli si proponeva ogni giorno e quella che avrebbe voluto fare. Ma non aveva scelta, almeno per il momento.

Un giorno, sentì una speciale ispirazione che lo prese dentro e gli fece battere forte il cuore.
Decise di sfogarsi e confidarsi, ancora una volta con Colei che, sola, lo poteva capire fino in fondo e aiutare.
Era il 15 settembre 1936, giorno in cui a Varese si festeggia la Vergine Addolorata. Fu un giorno memorabile, almeno per lui.
Inginocchiato come suo solito dinanzi alla statua della Madonna, Vittorio si sentì di farle una promessa solenne: semmai avesse realizzato il sogno di diventare prete, sarebbe andato da lei a celebrare la prima messa.

Una promessa che allora sapeva di impossibile, ma che la Vergine dovette apprezzare molto, non fosse stato altro che per quel suo coraggio di sperare contro ogni speranza.

Dopo quel momento di intensa preghiera, in cui gli parve davvero di dialogare con Sua madre, la vita di Vittorio riprese esattamente come prima, tra il lavoro, la chiesa, la famiglia. Solo che i suoi desideri erano ormai al sicuro.
E accadde così che, molti anni dopo, proprio quando ormai non lo credeva forse più possibile nemmeno lui, fu esaudito.
Don Vittorio Pastori celebrò così la sua prima messa proprio lì, ai piedi della Vergine Addolorata della chiesa di San Vittore in Varese, con le mani tremanti e il cuore in gola.
Memore di quella grande promessa che finalmente si realizzava, dopo appena... quarantotto anni di attesa!
Era il 15 settembre 1984. Aveva cinquantotto anni.
Fedeltà di Vittorio e fedeltà di Maria: sono le misteriose vie di Dio.

Gaia Corrao

Nella foto, Il giovane chierichetto Vittorio (sulla destra) durante una celebrazione nella sua città di origine, Varese.

Pubblicato il 28 luglio 2019

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Verso la festa della Devota della Costa / 3

Devota3Ai primi di agosto la Val Ceno, in provincia di Parma ma diocesi di Piacenza-Bobbio, è in festa per la Devota della Costa, al secolo Margherita Antoniazzi, serva di Dio, religiosa del ‘500, ancora oggi nel cuore della popolazione della sua terra.
Vogliamo preparare le celebrazioni ripercorrendo grazie a Gaia Corrao la sua vicenda umana. Ecco la terza puntata.

Di prodigio in prodigio

Una domenica finiti i vespri, Margherita stava come al solito chiedendo offerte e aiuti per la chiesa a questo e a quello, quando un gruppetto di persone particolarmente agguerrite cominciò a prendersi gioco di lei, mettendola in ridicolo davanti alla folla radunata sul piazzale.
Per tutta risposta e senza affatto scomporsi, la ragazza entrò in chiesa e prese due candele, dopodiché assicurò con voce ferma ma serena che ciò cui avrebbero assistito di lì a poco li avrebbe convinti una volta per tutte che non era una fanatica visionaria.
Gli sguardi di tutti erano fissi su di lei.
Incuriositi da quelle parole, la seguirono.
La giovane si incamminò verso un laghetto chiamato il Roggione, non lontano dalla Costa in direzione di Bardi. Ora quello specchio d’acqua era stretto ma profondo, tanto che una leggenda lo voleva senza fondo e nessuno osava bagnarvisi, tanto meno tentare di attraversarlo a nuoto, per paura di annegarvi dentro.
Giunti sulla riva del laghetto, Margherita accese le due candele.
La folla attorno la osservava sbigottita, ammirata dalla sua imperturbabile serenità.

A questo punto Margherita esclamò: “Ecco, io mi metterò dentro a questo lago e se coll’aiuto del Signore mi verrà fatto di passar all’altra sponda sott’acqua senza punto bagnarmi e senza che si spengano le candele, ciò vorrà essere segno che le cose dette da me intorno alla chiesa non me le sono cavate io di mio capo, man che le mi vennero ordinate dall’alto. Che se per lo contrario resterò vittima della mia temerità, farete di me quel conto che si fa di una pazza”.
Poi senza indugio, fattosi il segno della croce, le due candele in mano e i vestiti addosso, si immerse nelle acque del Roggione, che subito la inghiottì tra i suoi gorghi oscuri.
Quanti l’avevano seguita erano in preda al panico, presagendo la tragedia che si sarebbe consumata. Un brusio confuso si levava dalle sponde del lago. I presenti erano in ansia.

Finalmente ogni dubbio venne fugato e tutti tirarono un sospiro di sollievo, quando videro Margherita riemergere dall’acqua illesa, completamente asciutta e con le due candele accese ancora in mano.

Dinanzi a quell’inspiegabile prodigio, anche i più restii a crederle furono costretti ad arrendersi e la diffidenza di prima si mutò in ammirazione, il timore in entusiasmo. Tutti gridavano a gran voce e battendo le mani acclamavano Margherita, assicurando aiuti per la costruzione della chiesa, perché veramente gliel’aveva chiesta la Madonna.
Anzi, accadde sempre in quel fatidico giorno che un tale, Lusino da Geminiano, salito su un grosso masso per seguire meglio la scena, cadesse improvvisamente fratturandosi il ginocchio.
Giaceva ancora a terra tra i lamenti, incapace di rialzarsi in piedi, quando la Devota appena riemersa dall’acqua del Roggione, gli si avvicinò e tracciò un segno di croce sull’arto offeso. Subito la ferita sparì e Lusino poté tornare a casa saltando e danzando dalla gioia, lodando Iddio per tanta grazia.

I testimoni raccontano che da quel giorno nessuno si permise più di prendersi gioco di lei, perché evidentemente il Cielo stava dalla sua parte.
Cominciarono così a piovere abbondanti elemosine da ogni parte e Margherita si rallegrava che finalmente il desiderio della Madonna fosse prossimo alla realizzazione.

Tuttavia si sa, gli uomini dimenticano presto i segni e i prodigi e preferiscono agire di testa loro e così nuovi dissensi sorsero a proposito del luogo esatto dove la chiesa si sarebbe dovuta costruire, finché un giorno uno stormo di uccellini con pagliuzze e pezzettini di legno nei becchi, si precipitò in mezzo al frastuono dei lavoratori che si agitavano qua e là, lasciando cadere il materiale custodito nel becco proprio nel punto che aveva indicato Margherita come quello su cui la Vergine desiderava si costruisse la chiesa.
Anche questa volta, i dissenzienti si arresero e le fondamenta della chiesetta furono finalmente gettate.

Gli ultimi ostacoli

Ormai tutto era deciso: la chiesa si sarebbe costruita sul colle di Caberra, tra Costa e Cantiga.
Tutti gli abitanti di quelle zone erano finalmente d’accordo e lieti di collaborare come potevano alla realizzazione di un’opera in precedenza tanto osteggiata.
Con ardore e fervore i buoni popolani si misero tutti a disposizione, lavorando con lena notte e giorno.
Margherita si rallegrava nel vedere finalmente premiate la sua costanza e la sua fede. Era una gioia guardare tutta quella gente che lavorava insieme in pace.
C’era però da superare un ultimo, inatteso ostacolo.

Questa volta l’opposizione giunse dal rettore stesso di Costa, don Ludovico.
Come si accennava, il parroco di San Bartolomeo temeva che una nuova chiesa così vicina alla parrocchiale avrebbe diminuito le sue già precarie entrate, riducendolo in miseria.
Armato pertanto delle sue buone ragioni, si presentò al conte Agostino Landi, signore di Bardi e di tutto quel territorio, e a lui si appellò, con forti lamentele e rimostranze. Il conte dal canto suo non trovò del tutto infondati i reclami di don Ludovico e mandò a chiamare Margherita.

Giunta che fu la giovane al castello, le proibì seduta stante di procedere con i lavori per l’edificazione della chiesa.
Le permise di costruire eventualmente solo un piccolo oratorio.

Margherita si sentì certamente mancare: proprio ora che tutto procedeva così bene... Ma la fede non le venne meno e nemmeno il coraggio di ribattere al conte con grande fermezza pur senza mancargli di rispetto, che se egli non avesse cambiato idea nel giro di tre giorni, l’edificio sarebbe comunque sorto, ma sul Monte Lana, fuori dalla sua giurisdizione.
Colpito da quelle parole semplici ma ispirate il conte Agostino, che stimava molto Margherita, cambiò immediatamente idea.
Non solo le concesse di edificare la chiesa ove ritenesse più opportuno, ma anche le offrì parte del materiale necessario - gli stipiti della porta, legname, pietre - recuperato dalla fortezza di Pietra Cervara, da poco atterrata.
Le assicurò inoltre che mai più le avrebbe procurato impedimenti, “se nostro Signore vuol fare miracoli sui miei stati”.

Margherita se ne tornò a casa felice e sollevata, lieta che il Cielo avesse spalancato anche l’ultima porta che sembrava chiusa.
Ormai era certo. La chiesa si sarebbe fatta e accanto ad essa si sarebbe costruito anche un piccolo monastero, all’interno del quale lei già meditava di vivere per dedicarsi a Dio e agli altri attraverso la preghiera, magari in compagnia di qualche altra ragazza di buona volontà.

Durante i lavori emerse però un altro problema di non poco conto: la mancanza di acqua o almeno la difficoltà nell’approvvigionamento.
Dal momento che l’edificio era stato costruito sulla dura roccia, non c’era possibilità di scavare un pozzo. Questo inconveniente avrebbe costretto le monache del futuro monastero ad uscire sovente per attingere acqua altrove e ciò con un certo disagio.

Margherita propose di costruire una cisterna per supplire almeno ai bisogni più urgenti, ma si trovò tutti contro, perché dicevano, lì sotto c’era solo roccia e non sarebbe stato possibile trarre neanche una stilla d’acqua da quei massi.
Illuminata da qualche arcana ispirazione, la ragazza non si smosse e ribadì di volere il serbatoio proprio nel punto che indicava.
Vinti dall’insistenza di Margherita, i lavoratori sia pure a malincuore, si lasciarono convincere e tra un lamento e l’altro, procedettero alla costruzione del pozzo.

Ancora una volta la perseveranza di Margherita non deluse.
Appena il pozzo fu terminato infatti, con grande sorpresa di tutti, lo videro riempirsi d’acqua fresca e zampillante, che sembrava scaturire da una pura vena.
Da allora, questa misteriosa sorgente sotterranea non è mai venuta meno e a tutt’oggi la fonte continua a zampillare abbondante dal profondo seno della montagna.

Alla fine, dopo tanto penare, il desiderio della Vergine era stato esaudito.
La chiesa stava finalmente in piedi semplice e bella e al suo fianco, piccolo e umile, sorgeva il monastero.
La costanza di Margherita era stata premiata e quello che inizialmente era apparso ai più il sogno ingenuo di una visionaria, era finalmente diventato realtà.
La costruzione del complesso monastico ebbe inizio nel 1525 e fu presumibilmente ultimata nel 1531.
La chiesa dedicata alla Santissima Annunziata fu consacrata il 21 maggio 1533.

La piccola comunità monastica

Lo stesso giorno dell’inaugurazione della chiesa fu aperto anche il monastero, anch’esso dedicato all’Annunziata.
Conclusi i festeggiamenti, sempre in quel memorabile 21 maggio 1533 Margherita Antoniazzi diede l’addio a tutto e a tutti e prese dimora tra quelle mura, insieme alla sua prima compagna di vita consacrata, Catella Capiani, una ragazzina semplice e buona, che le fu sempre fedele discepola.

Dopo appena qualche settimana di vita monastica “a due”, bussarono alla porta del convento di Margherita alcune ragazze che chiedevano di essere ammesse a quella vita ritirata e penitente nel piccolo nido di pace e di preghiera da poco ultimato.
Margherita le accolse di buon grado, ma per provare l’autenticità delle singole vocazioni chiese loro le corone del Rosario e le appese ad un albero.
Quindi si raccolse in preghiera, chiedendo a Dio un segno che le rivelasse quali tra le ragazze erano animate da vero spirito di preghiera e quali invece, erano semplicemente infatuate all’idea di quello stile di vita silenzioso e nascosto agli occhi del mondo.

Data poi una leggera scossa al tronco osservò alcune corone cadere, altre rimanere appese all’albero: quelle erano le corone delle ragazze che avrebbero perseverato fino in fondo nel difficile cammino che stavano per intraprendere.

Tra i nomi delle monache che formarono la prima comunità di “Margheritine” ricordiamo quelli di Maria Bracchi, nipote di Margherita in quanto figlia di sua sorella Antonina, Domeneghina Ghioni, detta la Tornola, perché proveniente da Tornolo e a cui fu affidato l’incarico di cuoca e Angelina Antoniazzi.
Col tempo a questo primo gruppetto di monache se ne aggiunsero altre, ma il loro numero non superò mai la decina.

La piccola comunità non era guidata da una regola particolare, seguiva i consigli e gli esempi della fondatrice.
Margherita stessa era la loro regola.

Le religiose vestivano un saio lungo fino ai piedi, con una pazienza e il velo bianco.
Andavano tutte a piedi scalzi anche in inverno.
Emettevano i voti di povertà, castità e obbedienza e conducevano una vita penitente ed esemplare, praticando tutte le virtù cristiane e frequentissimi digiuni, come risulta dalle numerose ispezioni vescovili di cui fu oggetto il monastero.

Si tenga presente che in un tempo in cui la gente era abituata a mangiare non molto più che pane e acqua o al massimo a bere un bicchiere di vino, il fatto che le relazioni degli ispettori sottolineino in particolare il dato dei digiuni, significa certamente che le “Margheritine” rinunciavano spesso e volentieri anche a quel poco di cui all’epoca normalmente ci si nutriva.

Lavoro, preghiera, penitenza scandivano il ritmo delle giornate di queste fervorose consacrate.
Si alzavano di notte per pregare e la sveglia al mattino precedeva l’alba in modo da poter dedicare un lungo tempo alla preghiera, alla recita dell’ufficio divino e alla messa, prima di dedicarsi ai vari lavori.
Tutto si svolgeva in un clima di silenzio e meditazione.

Anche se non erano vincolate da stretta clausura, le suore potevano uscire dal convento solo occasionalmente e comunque ciò accadeva piuttosto di rado e sempre con il consenso della superiora e accompagnate.
Le uscite avvenivano solo per necessità del convento o per compiere qualche opera di carità verso il prossimo.

Fin dai primi anni di attività del monastero dell’Annunciata della Costa, le religiose si distinsero per lo spirito di preghiera e per la grande carità verso il prossimo, specialmente se povero e malato.
Era il carisma di Margherita, da sempre innamorata del Cielo e attentissima alle necessità dei fratelli, che si trasfondeva col passare del tempo nelle sue devote discepole.
Era l’inizio di una bella avventura sulle ali della Provvidenza, che avrebbe portato un piccolo gruppo di monache di montagna a sperimentare uno stile di vita nuovo e in un certo senso rivoluzionario, se paragonato al normale modo di vivere delle religiose dell’epoca.

Gaia Corrao


Pubblicato il 23 luglio 2019

Le puntate precedenti:
1 - Margherita, una religiosa nel cuore del Cinquecento
2 - Alla grotta della Rondinara

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