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Il tempo passa, pesante.
Papa Francesco ha segnato il passo per tutti. Ci ha toccato dentro, credenti e non credenti, uomini e donne in pena, in cerca di un abbraccio.
Perché sempre si desidera ciò che non si può avere e di un abbraccio oggi sentiamo una mancanza struggente. Incontrarci, stringerci la mano, trovarci fianco a fianco.
Ma dobbiamo resistere al contatto fisico e recuperare l’intimità antropologica, la sintonia esistenziale, la comunità spirituale.
Il Papa è riuscito venerdì scorso in una piazza San Pietro, mai così vuota e così pulsante di presenze invisibili, ad abbracciarci tutti, dentro una preghiera silenziosa e forte.
Eravamo tutti lì, sotto la pioggia, ai piedi del vecchio crocifisso, dentro quelle parole chiare, essenziali, scandite lentamente, parole dense e accorate, le parole di un padre preoccupato per i figli.
C’eravamo noi e c’erano i nostri morti, presenti nella forma dell’assenza, incisi nella memoria, dentro gli occhi e il cuore di ciascuno di noi.

Francesco ha detto poche parole, non spreca formule retoriche, basta la Parola di Dio, che anche chi non crede desidera sentire vicina.
So di balbettare, non ho né la grazia né l’autorità per dire cose grandi, ma scrivo perché altri possano nel mio balbettio far risuonare le proprie sensazioni, non solo quelle emotive, ma soprattutto quelle spirituali che palpitano per il mondo intero, partendo dal punto in cui ci troviamo. Insieme, sulla stessa barca come ci ha ricordato Francesco.
Sballottati e pieni di paura, di chi possiamo fidarci?

In questi giorni ho pensato a Cassandra, personaggio sublime della letteratura greca.
Cassandra era una veggente, vedeva ciò che gli altri non vedevano. Ma la gente pensava che vaneggiasse, che fosse portatrice di sventura.
Gli occhi e il vedere sono stati al centro delle nostre meditazioni quaresimali.
La scrittrice Christa Wolf dà voce a Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo, sacerdotessa di Apollo, mentre racconta il compiersi del suo destino.
Lei sapeva che Troia, la sua città sarebbe finita. Aveva il dono straordinario e tremendo di vedere cose che gli altri non potevano vedere: un peso, più che un dono, qualcosa di non facile da portare.
Tutti l’hanno presa per matta, perché da sempre, anche nella mitologia, la voce profetica è disprezzata e banalizzata e solo il dolore diviene, alla fine, la prova della verità annunciata.
Pensiamo a noi, alla nostra storia: ci sono segni importanti che ci ammoniscono di cambiare, il rapporto con la natura, con le relazioni, il senso di quello che facciamo, il valore che inseguiamo affannosamente.
Cose che hanno bisogno di un lavaggio profondo, di un cambiamento, di una conversione.
Dobbiamo dare retta ai segni.
Prendiamo in mano la vita personale, comunitaria, pubblica, politica, culturale e rifondiamo. Cerchiamo il terreno migliore per piantare gli alberi che continueranno a donarci ossigeno (vitale ossigeno ...), troviamo forme nuove per costruire, per non dimenticare chi rimane indietro, per aiutare chi fa fatica a crescere e a fidarsi del futuro. Siamo testimoni di ciò che non va.
Qualcuno è profeta, vede avanti e parla, il Papa in primis. Non smette di dire cose scomode, di ricordarci che siamo fragili...
E non serve appartenere a una categoria per sentirsi tali, fragili lo siamo tutti.
Guido Dotti, monaco di Bose, ha scritto che oggi “non siamo in guerra, siamo in cura” e dobbiamo curarci insieme, gli uni si curino degli altri. E questo stile non dovrà finire una volta che l’epidemia sarà conclusa. Dovrà essere la cifra che contrassegna la nostra umanità. Come un lenzuolo di lino, nascosto nel baule, un po’ ingiallito, con i magnifici ricami fatti dalle donne del passato, su cui sono indicate le cifre, le iniziali dei nomi. È il corredo che si tramanda, e ha un valore inestimabile, perché ci innesta nella linea del tempo.
Apriamo il baule della nonna, tiriamo fuori questi magnifici teli, con le iniziali e reimpariamo l’alfabeto umano. Riscopriamo le parole universali.
Luigino Bruni, economista e biblista, ogni domenica su Avvenire ci porta dentro i libri della Bibbia e da poco ha ripreso la preghiera dei Salmi, perché, dice, sono le “preghiere nate nei momenti più tremendi della storia di Israele”.
Impastate di uomo e di Dio, sono le più capaci di dare voce a tutto il dolore e a tutto l’amore dell’uomo.
E noi, oggi come allora, ne abbiamo molto bisogno.

Itala Orlando

Pubblicato il 10 aprile 2020

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Quaresima 2020, quarto passo:
condividere il dono ricevuto

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La preposizione “con” qualifica molte parole importanti del nostro linguaggio: comunicazione, condivisione, consapevolezza, compagnia, consolazione, connessione, collaborazione.
Essere-con è una postura che ci appartiene profondamente e definisce le nostre azioni, nel lavoro, negli affetti, nella politica, nell’economia.
Nulla possiamo da soli. Ce ne rendiamo conto quando il collegamento viene meno, come in questo periodo in cui sono interdetti i contatti tra le persone e non riusciamo a stare con i nostri cari, specie nei momenti più difficili. E questo provoca in tutti noi una grande sofferenza.

Questo quarto passo ci porta proprio lì, nel valore dell’incontro con l’altro, uno spazio in cui il mondo si riconfigura e si dispiega un senso nuovo delle relazioni.
Le donne del vangelo lo raccontano bene. Pensiamo alla Samaritana: dopo l’incontro con Gesù che le ha rivelato il senso della sua vita, se ne va così eccitata che lascia al pozzo la brocca con cui doveva prendere l’acqua, una cosa preziosa quella brocca, ma non tanto quanto il dono spirituale ricevuto: essere riconosciuta, amata e spinta a vivere una nuova vita.
Così anche le donne che al mattino di Pasqua recatesi al sepolcro, trovandolo vuoto, corrono a dirlo ai discepoli chiusi nel cenacolo. Sono elettrizzate dalla notizia: Gesù è risorto!
Quando ci accade qualcosa di grande non ce la facciamo a tenerlo per noi, dobbiamo condividerlo, subito, con l’immediatezza dei bambini, senza paura, senza pudore.
Non da pettegoli: i pettegoli sussurrano, parlano all’orecchio, sottovoce, non vogliono farsi sentire, perché il male è strategico, anche quando è piccolo, sta nell’ombra, non vuole farsi riconoscere. Il dono invece è luce, porta che si spalanca, rivelazione che ha il respiro del mondo. È la felicità della persona guarita. Ma è anche la felicità di chi ha guarito, che non guarda la stanchezza, la sente, ma va avanti fino alla fine, perché ha assunto la responsabilità dell’altro, ne condivide il destino, non può fermarsi.
E la cosa straordinaria è che più amore si dà, più ne torna indietro. È un bene che si genera in continuazione. La mia gioia è la tua gioia, il mio amore è il tuo amore, il tuo bene è il mio bene.
Il contrario del condividere, invece, è avere paura: che qualcuno ci porti via il primato, il segreto, il posto migliore. Il contrario del condividere è la cecità che impedisce di vedere ciò che conta veramente, ciò di cui non si può fare a meno, e cioè che qualcuno mi voglia bene, capisca quanto sto male e di quanta consolazione ho bisogno.
In questi tempi vediamo all’opera la capacità di condividere nella generosità di medici, infermieri, oss, educatori, psicologi, sindaci, volontari che si fanno in quattro (dividendosi per quattro e per quattro ancora) dimostrando che è proprio la condivisione, che diviene corresponsabilità, a salvarci. E ironia della sorte, oggi, per prenderci cura degli altri, quasi paradossalmente dobbiamo isolarci dagli altri: proteggo me per proteggere te e viceversa.
La solidarietà sembra un paradosso, semplicemente segue altre logiche, che mettono, comunque, sempre, al centro l’altro.

È facile tutto ciò?
No, non lo è. Richiede la con-sapevolezza di quello che siamo.
Nei racconti delle origini si narra di un fratricidio: Caino uccide Abele e risponde a Dio che gli chiede dov’è suo fratello: sono forse io il custode di mio fratello?

Che risposta dare a questa domanda?
Non una parola automatica, che ci scagiona, ma una parola scelta con cognizione etica: sì, sono il tuo custode, chiunque tu sia, vecchio o giovane, amico o straniero, ricco o povero, buono o cattivo, e tu lo sei di me.
Siamo una com-pagnia, che etimologicamente significa mangiare insieme il pane, alimento essenziale.
Certi gesti quotidiani e sacramentali sono il segno della nostra umanità e del riverbero divino in noi.
Questo periodo in cui la quaresima liturgica coincide più che mai con una dura quaresima esistenziale, in cui ci sentiamo quasi senza pelle tanto siamo esposti al rischio, isolati come nel deserto, raccolti nelle nostre dimore sicure, prendiamoci cura della vita, la nostra e quella degli altri, chiunque essi siano, in tutti i modi possibili.
Coltiviamo dentro di noi questa postura, facciamola crescere con dedizione.
Appena usciremo sarà il mondo intero, la nostra città, la nostra chiesa ad avere bisogno del nostro abbraccio.
Non facciamolo mancare, sarà una rinascita, anzi una resurrezione.

Itala Orlando

Pubblicato il 1° aprile 2020

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