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Il racconto dell’estate / 3
Alla conquista dell'Africa

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Vittorio sbarca a Piacenza

Il 4 ottobre 1969 mons. Enrico Manfredini venne nominato Vescovo di Piacenza.
Vittorio si preoccupò subito di rassicurarlo che a organizzare una solenne cerimonia di investitura, ci avrebbe pensato lui. Come ai tempi del famoso pellegrinaggio a Roma.
Proprio a quei tempi, Manfredini aveva lanciato all’amico una provocazione rimasta lì per lì a mezz’aria, ma che dentro di lui aveva dato origine ad un lavorio continuo che, a sua volta, stava preparando il terreno per le future decisioni.

Gli aveva detto: “Vittorio, vedo in te un generatore di Chiesa. Perché non seguire completamente questa vocazione? Pensaci, Vittorio, pensaci”.
E lui ci aveva pensato. Sul serio.
Aveva pensato e ripensato a quando ancora bambino sognava di fare il prete, a quando quel sogno svanì per la mancanza di soldi, ai tanti lavori svolti prima di sistemarsi con il ristorante e ancora al fatto che, nonostante il successo e il denaro, sentiva mancargli qualcosa nella vita.
Quel desiderio di bambino di vivere tutto per Dio, non si era mai spento. E se non fosse stato come prete, sarebbe ben potuto essere in qualche altro modo.
Forse ora, quel modo andava prendendo consistenza.
Forse il Signore stava passando nella sua vita e, attraverso le parole profetiche di quel vescovo novello, lo stava chiamando. Dove, non si sa.
Certamente sulle sue vie, quelle che fin da piccolo aveva sognato di percorrere.
Manfredini però stava per lasciare Varese e Vittorio sentiva che senza di lui non avrebbe potuto rispondere a pieno a quella singolare chiamata che gli pareva di avvertire.
Non aspettò di sentirla chiaramente.
Fece il salto della fede e, con un gesto di pura follia, per chi ragiona con la mentalità del mondo, lasciò tutto, compreso il ristorante, per seguire il “suo” Vescovo nella nuova sede di Piacenza. Senza pensarci due volte. E senza voltarsi indietro.

A Piacenza lo notarono subito tutti, non fosse altro per quella sua mole gigantesca che gli impediva di passare inosservato ovunque andasse.
Era l’8 dicembre 1969, quando mons. Manfredini faceva il suo solenne ingresso in diocesi e... Vittorio con lui.
Fu visto smistare il traffico davanti alla Cattedrale, soffiando di propria iniziativa il lavoro ai pur numerosi vigili urbani mobilitati per l’occasione.
Per il resto, la cerimonia fu impeccabile e piacque a tutti.
Un po’ meno quell’omone, burbero e scostante, che non si capiva bene cosa avesse a che fare con il nuovo vescovo. L’accoglienza che la città gli riservò fu freddina, per non dire gelida.

A ciò contribuì senz’altro anche il suo modo di fare spicciolo, a volte addirittura scontroso, che lo faceva somigliare a un bulldozer poco uso alle buone maniere, tanto gradite invece nel piacentino.
Il Vescovo lo aveva nominato amministratore diocesano ed economo del Seminario e lui, come suo solito, si era messo subito al lavoro rivoluzionando praticamente tutto quanto fin lì fatto, senza guardare in faccia a nessuno, senza paura di offendere o contrariare qualcuno, pur di far quadrare il bilancio.

L’invadenza di questo omone dai modi spicci, per di più laico, negli ambienti della Curia piacentina, provocò più di una bocca storta.
Più che accolto, diciamo, fu tollerato.

La grande mole di Vittorio, passato non a caso alla storia come Vittorione, non poteva non influenzare il giudizio che d’impatto la gente si formava su di lui.
Non era semplicemente grosso, imponente; era addirittura gigantesco, con i suoi 243 chili che facevano della sua circonferenza una specie di mappamondo.
La sua obesità derivava da una disfunzione, che era andata aggravandosi durante il soggiorno nei campi di concentramento in Svizzera.
Era sempre stato robusto, come dire, abbondante per natura: ma da quel periodo in poi la sua stazza divenne a dir poco debordante.

Questa realtà con la quale dovette fare i conti sempre, se in gioventù gli aveva provocato qualche naturale timidezza, da adulto continuò a farlo soffrire e non poco.
Quel corpo che col tempo si era trasformato per lui in un vero e proprio cilicio, fu la sua prima grande croce, causa spesso di ironia gratuita e di conseguenti, dolorose umiliazioni.
Da uomo pragmatico qual era però, non stette tanto a piangersi addosso.
Non solo imparò a ignorare i commenti poco gradevoli della gente e, a volte, a prevenirli con qualche sua battuta sull’argomento. Ma, quando all’improvviso si ritrovò ad essere “qualcuno”, cercò di volgere anche quella particolare situazione a favore della causa per
la quale finì per spendere tutta la vita: i neretti d’Africa, come li chiamava lui.
Scheletrini nudi e affamati che, fotografati accanto a quel gigante buono venuto
 da lontano, facevano ancora più impressione, nella loro magrezza che sa di morte.
Ma questo è un altro discorso.
Per ora, ci troviamo ancora a Piacenza.


Direzione Africa

A Piacenza la vita scorreva più o meno tranquilla ma non certo felice, tra un rimbrotto per quel suo modo di fare tutt’altro che diplomatico e un nuovo conto da pagare.
Come economo Vittorione era inappuntabile: preciso fino all’esasperazione, non si riusciva a coglierlo in fallo. I conti, insomma, li sapeva fare alla virgola.
Dentro però si sentiva inquieto. Era come se qualcosa dovesse ancora accadere nella sua vita: tre anni prima aveva lasciato casa, famiglia e ristorante per seguire il “suo” Vescovo.
Possibile che il Signore lo avesse chiamato ad un distacco così forte per farlo finire a marcire dietro una scrivania a fare i conti per il Seminario di Piacenza e altre simili incombenze, per di più criticato, tribolato, incompreso?
Qualcos’altro doveva necessariamente bollire in pentola. E di fatto, bolliva.
Quel qualcos’altro si chiamava sorprendentemente Africa. Ma allora non poteva immaginarlo neanche lui.

Per capire come Vittorione sia arrivato fino in Africa, bisogna fare un passo indietro: quando mons. Manfredini era ancora parroco di Varese, era stato in Uganda insieme al Papa Paolo VI e lì era diventato amico di due vescovi locali, già conosciuti durante le sedute romane del Concilio Vaticano II: il vescovo di Gulu, mons. Cipriano Kihangire e quello di Lira, mons. Cesare Asili.
A loro aveva promesso aiuti alimentari per le popolazioni affamate dell’Uganda e del Karamoja in particolare, la poverissima regione del nord del Paese.
Il tempo era passato e Manfredini non si era dimenticato della promessa fatta e gli parve di intravedere nell’amico Vittorio l’uomo giusto al momento giusto.

Tutto ebbe inizio nel febbraio 1972 con un primo viaggio a carattere esplorativo per incontrare i vescovi.
L’organizzazione fu affidata proprio a Vittorio, il quale forse ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Forse perché non si trovava nello stato d’animo giusto o forse perché non a torto pensava che il caldo della fornace africana non fosse indicato per le sue dimensioni “allargate”, sta di fatto che, posto dinanzi alla proposta del Vescovo che gli chiedeva di partire, si lasciò scappare un’obiezione: “Ma eccellenza, non si potrebbe rimandare?”.
La risposta di Manfredini, quel giorno come molte altre volte, lo folgorò: “Chi ha fame, caro Vittorio, ha fame subito!”. Una frase che non dimenticò più.
Con Vittorio viaggiavano don Francesco Cattadori, segretario di mons. Manfredini, il geometra e tecnico della Curia Paolo Scaravaggi e don Enrico Gallarati che si sarebbe fermato per qualche tempo in aiuto del vescovo di Gulu.

Quello che videro Vittorione e i suoi compagni d’avventura, non possiamo neanche lontanamente immaginarlo.
Di certo si sa solo che da quel primo viaggio lui, Vittorio Pastori, rientrò trasfigurato.
L’impatto con la miseria, la fame, la morte per stenti e per sete, lo sconvolse al punto che da quel giorno in poi tutta la sua vita la spese per loro: per salvare dalla morte quanti più possibile di quei neretti dagli occhi grandi e severi.
Occhi profondi e immobili, che nel silenzio di un grido mancato sembrano rimproverare tutti noi Europei dalla pancia piena.

Un secondo viaggio fu organizzato per il mese di luglio.
Insieme a Vittorio partì un gruppo di una quindicina di persone, fra cui una coppia in viaggio di nozze (lo sposo per la cronaca era Sandro Pasquali, noto giornalista e autore, tra l’altro, di una significativa biografia di Vittorione).

A tutti i partenti, Vittorio chiese un’unica condizione: una valigia in più oltre al bagaglio personale, da riempire di beni di prima necessità per i fratelli d’Africa. All’arrivo in Uganda, quelle poche valigie piene di ogni ben di Dio dovettero sembrare meno di un ago in un pagliaio.

Gaia Corrao

Nella foto, uno dei primi viaggi missionari di "Africa Mission".

Pubblicato il 10 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi
2 - Dopo la guerra, nuovi orizzonti