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«L’Occidente ha distrutto l’Afghanistan. Accogliere tutti senza discriminazioni»

icontro amnesty afganistan 13 maggio 2022

“Il mondo cambia. E l’Afghanistan?” – è il tema dell’ottavo incontro del Laboratorio di Mondialità Consapevole, promosso da Università Cattolica, che si è tenuto venerdì 13 maggio al centro Caritas “Il Samaritano”. Sono intervenuti Luca Radaelli, infermiere, e Stefania Calza, medico, che da anni lavorano con Emergency. Radaelli ha trascorso sette anni in Afghanistan, dove ha lavorato prima come infermiere poi come Medical Coordinator e infine come responsabile del “progetto Afghanistan”. Oggi ricopre il ruolo di Medical Staff Planning Manager. Stefania Calza, piacentina, dopo la laurea specialistica in Medicina interna e Radiologia ha svolto brevi collaborazioni sanitarie in Amazzonia brasiliana, Eritrea ed Etiopia. Dal 2005 collabora con Emergency tramite missioni in Sudan e Afghanistan. Calza è tra i soci fondatori dell’associazione “Arcangelo Dimaggio” ed è responsabile della Senologia Radiologica e del Centro Salute Donna dell’Ausl di Piacenza.

Una realtà diversa

“L’idea era di fare una missione di sei mesi, e poi tornare a casa. Non avevo fatto i conti con la realtà – racconta Luca Radaelli –. Quando arrivai a Lashkar-gah nel 2008 rimasi folgorato da due cose: non mi aspettavo di trovare ospedali con giardini curati, un’attenzione al dettaglio… pensavo di avere a che fare con ospedali da campo; e poi ho visto le conseguenze effettive della guerra sulle persone, quindi bambini mutilati dalle mine antiuomo, la brutalità delle armi sul corpo degli esseri umani. Gino Strada evidenziava che nei conflitti moderni le vittime sono sempre i civili, perché il campo di battaglia sono le case delle persone. Il 50% dei nostri pazienti sono bambini”.

Cambiare le sorti di un popolo

“Quando andai per la seconda volta sapevo ciò che stavo facendo, per cui lasciai la mia casa, la mia fidanzata e partii per l’Afghanistan consapevole che la mia casa sarebbe stata lì. Tornavo in Italia solo per le vacanze: in quei momenti capivo cosa volesse dire vivere costantemente con livelli di adrenalina molto alti. Appena arrivavo a casa, l’unica cosa che riuscivo a fare era dormire, per scaricare tutto – prosegue Radaelli –. L’Afghanistan ha cambiato totalmente il mio modo di vedere il mondo e le cose. Essere presente a fare qualcosa importante che poteva cambiare le sorti di un popolo, di un Paese o semplicemente curare le persone sono soddisfazioni che non si possono descrivere. Emergency non è solo ospedali, ma soprattutto si occupa della formazione dello staff dei medici e degli infermieri”.

Il progresso non si cala dall’alto

“Ho imparato che la prima vittima della guerra è la verità. In Afghanistan le persone cercano di progredire, di dare aiuto a chi sta intorno. Ciò che arriva in Europa è tutta retorica intrisa di bugie, creata per dare a noi la sensazione di accettare un contesto di guerra. La Nato dice di voler «esportare la democrazia», che idiozia! Il progresso non si cala dall’alto, per radicarsi deve essere un processo che parta dal basso: le donne non si emancipano con un diktat che arriva da fuori, ma attraverso un percorso fatto di consapevolezza, istruzione e cultura. Se pensiamo che il 92% dell’eroina mondiale si raffina in Afghanistan smettiamo di credere alla retorica occidentale – conclude Radaelli –. È una guerra lunga, deteriorante, e le persone devono continuare a vivere la loro quotidianità consapevoli dell’incertezza di riuscire a tornare a casa. A scatenare le guerre sono sempre interessi, ma non quelli delle persone. La guerra non è romantica. Le cicatrici di guerra rendono uomini delle caricature di sé stessi. Non belli, ma feriti e stuprati. Le persone fanno sempre la differenza: anche in un contesto come quello si può scegliere da che parte stare, se combattere, se restare”.

Accogliere senza discriminazioni

Il contatto con una realtà come quella ci fa essere innamorati di qualcosa di impossibile. È una realtà complessa, difficile da spiegare – spiega Stefania Calza –. Oggi abbiamo una situazione simile a quella afghana in Europa. Dobbiamo capire che l’ondata emotiva che ora si riversa nel conflitto ucraino, tutta la sacrosanta solidarietà che mostriamo nei confronti dei civili ucraini riposano probabilmente su un malinteso senso di appartenenza al genere umano, per cui abbiamo fatto delle differenze. I bambini ucraini somigliano ai nostri, le città ucraine somigliano alle nostre, conosciamo personalmente degli ucraini, vivono intorno a noi. Perché la Polonia ha accettato più di un milione di ucraini ma ha respinto i neri? Che solidarietà è se fa differenze razziali? Il racconto dell’Europa che arriva agli afghani è quello di un «altrove» di tipo fisico, temporale, un luogo in cui riporre la speranza di migliorare la propria esistenza. E dunque fuggono, passando per una realtà allucinante. Negli ultimi anni di dominazione occidentale abbiamo offerto uno spiraglio di cultura occidentale che è stato un grosso tradimento nei confronti dell’Afghanistan, un’idea dell’occidente falsata che ha spinto e spinge molta gente a scappare. Io stessa accolgo una famiglia ucraina, ma dico che è sbagliato lasciare fuori dalle nostre porte donne e uomini solo perché hanno colori diversi.

Le mine antiuomo

Quando partì per la sua prima missione, Stefania Calza aveva paura. “Arrivai in Afghanistan dopo aver sorvolato un deserto montuoso fatto di grotte, anfratti, un paesaggio lunare. Mi accorsi subito che gli americani non hanno capito niente. Pensare di vincere in quelle circostanze era impensabile, anche con l’esercito più all’avanguardia che esista. Uscii dall’aeroporto e notai che una delegazione europea faceva da scudo a una politica italiana impegnata in Europa completamente circondata da militari, con giubbotto antiproiettile, mentre a noi in Italia veniva descritta una situazione di pace. Arrivai in ospedale, portando con me i macchinari per fare la TAC. Era la prima a disposizione della popolazione civile su tutto il territorio nazionale. La nostra TAC era simbolo di civiltà, un gesto di grande coraggio da parte di Emergency quello di esportare sanità di alto livello. La cosa che mi ha sconvolto di più è stata l’impatto con le vittime delle mine antiuomo sparse da noi occidentali in tutto il territorio. Sono facili da spargere, come le bombe a grappolo: se ne lancia una e ne arrivano a terra centinaia. Chiunque ne calpesti una salta in aria. Se non ti ammazzano ti rendono invalido per tutta la vita, distruggendo spesso gambe e genitali. I bambini amputati sembravano rendersi conto di quanto successo solo quando venivano sfasciati, perché prima mantenevano viva l’illusione di tornare a una situazione di normalità. Emergency ha condotto una lunga battaglia contro le mine antiuomo: l’Italia, che ne era il maggior produttore, oggi le ha messe al bando, almeno ufficialmente”.

La libertà delle donne

“In qualsiasi società il livello di evoluzione si misura a seconda della libertà che hanno le donne, perché la libertà di pensiero, di stampa, di fede, eccetera vedono la loro summa nella libertà delle donne. In Afghanistan vige la legge coranica, per cui le donne non possono andare a scuola, vengono vendute da minorenni per il matrimonio. Che tipo di alternativa della figura femminile abbiamo portato noi? Abbiamo portato un’immagine del femminismo distorta rispetto ai nostri valori, fatta di donne vestite da soldato per scimmiottare uomini, o di ballerine succinte vestite da Babbo Natale per dilettare le truppe. Noi di Emergency abbiamo proposto figure di professioniste, ma eravamo la minoranza – conclude Calza –. Non siamo noi a dover «togliere il burqa» alle donne: lasciamoglielo, sono loro a doversene liberare, quando e come vogliono”.

Ultimo incontro

L’appuntamento conclusivo si terrà sabato 28 maggio alle 18.30 nei locali del centro “Il Samaritano” in via Giordani 12/14. Interverranno Marina Pozzoli di Medici Senza Frontiere e Gabriele Micalizzi, fotoreporter, Collettivo Cesura. L’evento sarà aperto al pubblico.

Francesco Petronzio

Pubblicato il 18 maggio 2022

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