Menu
logo new2015 ok logo appStore logo googleStore

Impariamo a tendere la mano

maniaperte

San Paolo ci aiuta a rendere grazie soprattutto per la nostra povertà, nel punto in cui mai avremmo immaginato di trovarci ma dove si sperimenta la viva presenza di Dio e dei fratelli.
C’è un Paolo nuovo e molto umile in questa Lettura, cambiato rispetto ai tempi della gioventù in cui si mostrava fiero di veder massacrare i cristiani; ora riconosce di essere stato soccorso e sa di non bastare a se stesso.
Il nuovo Paolo ha imparato a ricevere bontà dai fratelli e ne gioisce, non si considera più un superuomo.
Così capita anche noi quando impariamo a tendere la mano e a riconoscerci bisognosi, mentre la società ci vorrebbe maestri e giudici di noi stessi.
Non ci chiediamo dove ci pone la grazia di Dio in un certo momento oppure dove ci chiederebbe di restare, ma pretendiamo di esaudirci da soli, anche nella vita spirituale.
Invece noi possiamo incidere sulla vita dell’altro, con una parola buona anche in una situazione di povertà. 

 

Paolo ha imparato a riprendere e riconsiderare daccapo vecchie situazioni e per questo ci vuole umiltà.
Paolo come Pietro rappresenta figure della gratitudine, che sanno consegnarsi al volere di Dio.
Il messaggio è imparare ad accogliere l’altro e vedere che il Signore è in tutte le cose e in tutti noi.
Quando noi realmente opponiamo resistenza all’aiuto fraterno?
In quali circostanze rifiutiamo una mano tesa verso di noi?
Permettere a qualcuno di aiutarci è questione di umiltà. Chiedere aiuto nelle varie situazioni della vita vuol dire sopportare di manifestare il proprio limite, la propria mancanza.
Dio ci dà la forza anche di chiedere.
Siamo nelle mani di Dio e così acconsentiamo che quelle mani si manifestino anche nei fratelli.
È la storia che decide la nostra santità nella misura in cui sappiamo pacificarci e riconciliarci con Dio, grazie al nostro prossimo.
Il Signore ci riconosce la forza di accettare le nostre debolezze e far sì che diventino un tramite per la comunione con gli altri.
Quante volte i nostri rapporti s’intensificano proprio nelle situazioni di fatica o di malattia, diventando solidi e profondi se ci lasciamo penetrare dall’aiuto di un altro. Nasce così una vera vicinanza profonda, solo se siamo capaci di spogliarci e di donarci.
Dio si consegna a noi in ogni Eucaristia.
Chi c’è di più debole del Signore, chi più di lui mendica il nostro amore?
Infatti, chi più di lui è umile?
Sosteniamoci un esame di coscienza per ogni volta che abbiamo avuto la possibilità di chinare il capo e invece con il nostro orgoglio abbiamo allontanato chi ci cercava.
Infinite volte abbiamo respinto gli altri perché abbiamo voluto fare da soli.
Proviamo a vedere se abbiamo saputo vivere la debolezza come una grazia e non come un impedimento al nostro vivere.
Il Signore ci chiede di vivere per lui, tutto il resto sarà dato in aggiunta.

Estratto dalla Lectio mattutina
di madre Maria Emmanuel Corradini,
abbadessa del Monastero benedettino di San Raimondo,
del 7 novembre 2020, Lettera di san Paolo ap. ai Filippesi 4,10-19

Pubblicato il 17 novembre 2020

Ascolta l'audio

"Il Nuovo Giornale" percepisce i contributi pubblici all’editoria.
"Il Nuovo Giornale", tramite la Fisc (Federazione Italiana Settimanali Cattolici), ha aderito allo IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria) accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.

Amministrazione trasparente