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«Il Concilio non sta alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi»

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Un percorso fra passato e presente, fra memoria e profezia, caratterizzato da un corpus dottrinale molto significativo, che ha promosso un necessario rinnovamento della Chiesa. Così mons. Celso Dosi, preside della Scuola diocesana di formazione teologica, ha definito il Concilio Vaticano II, protagonista dell’incontro di giovedì 16 febbraio al Seminario vescovile di Piacenza. Il percorso del Concilio non è terminato, hanno convenuto i relatori. “Nel 2012, in occasione del 50esimo anniversario – ha ricordato mons. Dosi – Benedetto XVI auspicava di rimettersi in dialogo con la gente”. L’iniziativa è stata promossa da Ufficio catechistico e Ufficio scuola della diocesi, Scuola di formazione teologica, Collegio Alberoni e Il Nuovo Giornale per riflettere oggi sull’eredità del Concilio e farlo così conoscere alle  giovani generazioni.

La storia del Vaticano II
“Il Concilio è un punto di partenza ma prima è stato un punto d’arrivo”, ha detto don Saverio Xeres, che è docente di storia della Chiesa al Seminario della diocesi di Como e alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale a Milano. “Il Vaticano II è il ventunesimo concilio della storia della Chiesa – ha continuato Xeres – che periodicamente necessita di un aggiornamento. Era atteso da un secolo, poiché il precedente, il Vaticano I, non si era mai concluso: aperto nel 1869, appena un anno più tardi fu sospeso da papa Pio IX, dopo la presa di Roma del 20 settembre 1870, perché non vi erano più le condizioni per proseguire. In seguito, Pio XI bocciò l’ecumenismo e Pio XII si rese conto dell’impossibilità di portarlo avanti a causa dei vari conflitti che si stavano consumando in Europa. Un nuovo tentativo fu fatto da papa Pacelli fra il 1949 e il 1950, ma anche in quell’occasione fu bloccato dalle difficoltà organizzative di radunare tutti i vescovi a Roma e dalle condizioni di salute dello stesso pontefice. Il materiale che Pio XII preparò fu, tuttavia, importante e diede un grande aiuto al futuro Concilio ecumenico Vaticano II, che partì l’11 ottobre 1962, indetto da papa Giovanni XXIII. Nel Concilio confluirono tutti i mutamenti avvenuti nei secoli precedenti, le nuove congregazioni, il movimento biblico e la nuova teorizzazione delle missioni da un punto di vista teologico. Già nel 1893 papa Leone XIII, in occasione del Congresso eucaristico di Gerusalemme, aveva mostrato che l’unione delle Chiese dissidenti con Roma, orientali e protestanti, costituiva insieme al rinnovamento della società la principale e più sentita esigenza sua e della Chiesa. Se prima era imposto ai cattolici di contrastare i non cattolici, dal Concilio in poi avvenne l’opposto. Un’altra apertura rilevante fu il rifiuto delle condanne, di cui trattò anche san Scalabrini quando scrisse, presupponendo la malattia che affliggeva il mondo, che la cura era la misericordia e non la condanna”.

Le prime due eredità del Concilio: una Chiesa che si celebra partecipando
e una Chiesa che ascolta

“Il Concilio non sta alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi, sulle vie tracciate 60 anni fa”, ha aperto così la propria trattazione padre Nicola Albanesi, sacerdote della Congregazione della Missione e superiore del Collegio Alberoni, dove è docente di teologia. “Il Vaticano II ha manifestato autentiche novità, che hanno fatto breccia sulla misura pluriennale della Chiesa”, ha aggiunto. Quali sono le novità che il Concilio ci ha lasciato in eredità? La prima è quella di una “Chiesa che si celebra partecipando”, come recita il 14esimo punto del Sacrosanctum Concilium, una delle quattro costituzioni emanate dal Vaticano II. “La chiesa – ha spiegato padre Albanesi – ha ritrovato la centralità della comunità radunata e la possibilità di pregare nella propria lingua madre. Cosa vuol dire avere a disposizione la liturgia nella propria lingua? È un enorme beneficio di cui ha goduto il popolo di Dio. Pregare nella lingua madre non serve solo a favorire maggior partecipazione e comprensione, ma ha a che fare col mistero dell’incarnazione: Dio parla la lingua materna, entra nelle culture, nei costumi, negli alfabeti della vita umana. Paolo VI si era reso conto di questo passaggio dal latino alle lingue madri. Con questa novità è tornato anche il senso estetico: non è vero che la messa in latino è più bella di quella postconciliare, che rimanda maggiormente all’essenza di Dio”.
La costituzione conciliare “Dei verbum” parla di una Chiesa che ascolta. “La Chiesa del Concilio ha riaperto lo scrigno delle Sacre Scritture ai laici. Nel Proemio della ‘Dei verbum’ si parla di Parola di Dio, non più di Scrittura: significa che prima viene la Parola, poi, di conseguenza, la Scrittura, che riacquista il suo significato e viene resa attuale grazie alla predicazione. Si è creato così anche un rapporto diverso coi fedeli, con l’introduzione di corsi biblici, scuola della Parola e un rinnovamento della forma della lectio divina. Passare dalla devozione alla fede: così la predicazione è tornata a essere annuncio evangelico oltre i moralismi dei codici”.

Una Chiesa comunione, in dialogo con lo spirito del tempo
La costituzione “Lumen gentium” riprende l’immagine della Chiesa comunione, una “Chiesa di popolo, situata nello spazio e nel tempo”, per usare la citazione di San Cipriano fatta dal documento conciliare. “L’obiettivo – ha spiegato padre Albanesi – è recuperare la dimensione ecclesiale di ogni credente e parlare ai laici. Nella Chiesa c’è una vocazione comune, prima ancora di quelle singole e di quella della Chiesa in quanto tale, che richiede ancora un’applicazione dopo i timidi tentativi postconciliari. Si sono riscoperte al Concilio alcune prassi, come quella di assemblare comunità cristiane, le modalità sinodali e alcune strutture democratiche: negli ordini mendicanti esistono strutture in cui si vota, si prendono decisioni comuni, esercitando il diritto di far valere il proprio punto di vista, sempre nell’alveo della comunione. Si riprende anche, dopo 1.500 anni, il rapporto fra centro e periferia, e si riconosce l’importanza delle parrocchie. I laici sono una massa di nuovi credenti, che vengono impiegati come collaboratori della gerarchia episcopale”. Cosa ci resta da fare? “Dare nuova forma istituzionale a questa immagine di Chiesa – ha detto padre Albanesi – Parliamo di comunione ecclesiale ma spesso manca l’aggregazione, la condivisione. Per 1500 anni le parrocchie non ci sono state, ora ne abbiamo assoluto bisogno. Tanto è stato fatto ma ancora di più deve essere fatto”.
La quarta costituzione conciliare, Gaudium et spes, parla di una Chiesa in dialogo con lo spirito del tempo. “Si stabilisce un’apertura della Chiesa al mondo – ha proseguito il superiore del Collegio Alberoni – da un atteggiamento chiusura del cattolicesimo romano dell’Ottocento si è passati a un atteggiamento di apertura verso il mondo moderno, dalle condanne al confronto, che può essere anche critico ma sa rispettare opinione dell’altro. Si passa dallo scontro all’incontro. San Tommaso, per troppo tempo strumentalizzato, era l’uomo delle ‘questiones’: aveva imparato a prendere sul serio ogni domanda, ogni posizione, per quanto falsa potesse apparire. Conosceva le ragioni dell’altro non solo per condannarle a priori, ma per accoglierle e capire come usarle al servizio della verità. C’è una verità superiore da ricercare e verso cui tendere. Il dialogo si costruisce, ma sempre intorno al principio cristocentrico: questa l’eredità più grande che ci ha lasciato san Tommaso”.

Il compito che ci attende
“La parola d’ordine nel post Concilio era ‘aggiornamento’ – ha detto Albanesi – ma non era sufficiente per il compito che il Vaticano II si era dato: non bastava un restyling, bisognava fare molto di più. Non era in gioco il punto alto della dottrina, ma la significatività della fede cristiana in un mondo in rapida evoluzione. Dagli anni ’70 in poi la parola d’ordine diventò ‘rinnovamento’: si credeva che ciò passasse per un momento di riscoperta delle fonti. Ma non bastava tornare a rileggere le fonti, era necessaria una nuova lettura dell’oggi. Essere contemporanei era una questione di vita o di morte, oggi si parla di discernimento del nuovo presente. In questo rinnovamento siamo come in mezzo al guado di un grande fiume: qualcuno guarda indietro al passato, forse per paura del tragitto verso l’altra sponda, ma altri riescono a guardare avanti, verso il futuro. Infine, papa Francesco oggi parla di ‘riforma’, perché ‘non siamo nell’epoca del cambiamento’, ma nel mezzo di un ‘cambiamento d’epoca’. Il Vaticano II – ha chiuso il docente – ha aperto brecce nei muri di un aspetto ecclesiale, ha portato elementi per costruire una forma nuova. Oggi la Chiesa, per riformarsi, ha bisogno di nuovi santi, ma anche di semplici persone”.

Francesco Petronzio

Nella foto, mons. Celso Dosi, padre Nicola Albanesi e don Saverio Xeres (in videoconferenza).

Pubblicato il 18 febbraio 2023

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