Davanti al dipinto di Antonello da Messina con Itala Orlando, coordinatrice di servizi sociosanitari
UN DIO CHE SI COMMUOVE
— “Non farti vedere piangere”: le lacrime, davanti al dolore, vanno censurate?
Le lacrime davanti al dolore non vanno censurate. Sono il distillato delle parole che non troviamo, dei pensieri confusi che trovano solo la forma liquida delle lacrime. Il dolore si fa fatica a dire, ma ha bisogno di esprimersi.
La nostra educazione reprime le emozioni che ci fanno apparire deboli. Nei film e nei salotti televisivi, invece, vediamo gente che piange per niente, ma questo è spettacolo.
Noi stessi quando mandiamo un messaggio aggiungiamo una faccina per dire se siamo felici, tristi o arrabbiati. Nella vita vera non basta un emoticon.
Non ci sono parole pronte, non ci sono risposte perfette o protocolli precisi.
Proviamo a recitare piccoli copioni sociali per anestetizzare il dolore. Ci diciamo “non è nulla, andrà tutto bene”. E tratteniamo, fingiamo, al massimo ci rifugiamo nei tecnicismi, con l’aiuto della medicina e della psicologia.
Ma non serve trattenere le lacrime.
Ci pentiremo un giorno di non aver abbracciato, di non aver pianto insieme all’altro. Quindi: si può piangere, non ce ne dobbiamo vergognare.
Ecce Homo: è un uomo che piange, anzi, di più, è un Dio che piange, che si commuove e non lo nasconde, perché la sua partecipazione alla sofferenza è totale e il suo sguardo sulla sofferenza è profondo e disarmato. Il dolore è così grande che è trasparente, come l’acqua delle lacrime.
Piangiamo per noi stessi, per quello che stiamo perdendo e piangiamo per gli altri, soprattutto quando la loro sofferenza è troppo grande, insostenibile, ingiusta, insensata, uno scandalo.
Il Cristo dipinto da Antonello da Messina piange per quello che sta vivendo e piange per quello che sta vedendo: uomini cattivi, egoisti. Per tutto ciò soffre, nel corpo e nello spirito, e si commuove per il peso di questo destino di tribolazione.
Anche nell’orto degli ulivi Gesù ha pianto e ha sentito una tristezza infinita. “La mia anima è triste fino alla morte”, è consapevole di ciò che sta accadendo. Le lacrime esprimono questa coscienza. Le lacrime sanno.
UN DIO CHE SOFFRE
— Oggi viviamo di parole. Ma come “si dice” il dolore? E come si risponde, quando il silenzio pare l’unica risposta sensata?
Ciascuno dice il proprio dolore come può.
La piega della bocca dell’Ecce Homo è il tratto somatico della sofferenza. Il corpo non mente, purché qualcuno lo ascolti e ne riconosca il linguaggio.
L’anziano demente, la persona con una grave disabilità, chi non ha mai avuto o non ha più la parola può provare dolore e soffrire della propria condizione, ma essere incapace di esprimere il proprio stato. Occorre capire questo dolore, rilevarlo, dargli una misura. Ce lo impone anche la legge, perché il dolore è un parametro obbligatorio da rilevare e quando c’è va trattato.
Con chi non sa dire il proprio stato doloroso, siamo chiamati a decifrare i segni non verbali, primo fra tutti l’espressione del volto, le contrazioni, gli spasmi, una piccola increspatura della fronte, una piega della bocca.
Gli infermieri sono avvezzi a questo sguardo e lo sono ancora di più i familiari, attentissimi osservatori dei minimi particolari, anche dei più impercettibili segni che dicono come sta la persona. E una volta intercettato il dolore, quello esplicito e quello nascosto, non è sempre necessario ricorrere alle parole, soprattutto quando la persona che sta male non sa che farsene.
La prima risposta è l’attenzione, il non ignorare.
Ci sono porte di camere che non si vorrebbero aprire, perché imbarazzano: sono proprio le porte che dobbiamo aprire, nelle quali prendere una sedia e stare accanto al malato, all’amico che soffre, alla persona angosciata.
Vi sono modi precisi per fronteggiare il dolore fisico, le terapie ad esempio sempre più efficaci, ma la sofferenza morale, psicologica e spirituale non trae beneficio dal farmaco. Necessita di vicinanza, gentilezza, piccole attenzioni semplici e concrete, pazienza e accoglienza.
Non è facile lasciare che l’altro sia come è, consentirgli di essere e basta, senza volerlo cambiare o simulare ipotesi che non possono essere.
Anche la consolazione che viene da Dio non annulla la tribolazione, ma la rende sostenibile.
UN DIO CHE VIENE UMILIATO
— La sofferenza ingiusta, innocente, suscita rabbia, voglia di vendetta. Come gestire questi sentimenti?
L’umiliazione e l’ingiustizia fanno rabbia.
Inaccettabile la morte dell’innocente per la guerra o per una malattia, per mano di un uomo violento o per una tragica fatalità.
Si può perdere la fede per questo. Perché ci si trova sopraffatti e soli, isolati e non capiti, vittime.
Vengono in mente tante situazioni. Sono ritornate all’ordine del giorno le denunce per maltrattamenti di anziani e disabili, dopo tutti questi anni impegnati a formarci e a costruire una cultura dei diritti e del rispetto. Ci prende un senso di frustrazione.
Quand’ero piccola mi dicevano che le spine della corona di Gesù erano inflitte dagli uomini, ciascuno, quasi senza accorgersene, poteva aggiungere una spina.
Allora se è vero che sono responsabile anche per una piccola parte della sofferenza del debole, quel dolore è anche mio. Mio, perché posso averlo causato. Mio, perché posso lasciarlo essere senza provarne pietà, senza muovere un dito per alleviarlo.
L’indifferenza lascia che siano sempre gli altri i responsabili, anche del male.
La domanda: “perché Dio permette il male?” potrebbe diventare “Perché l’uomo compie il male? Perché non smettere di infliggere dolori? Cosa posso fare per aiutare chi soffre? Posso provare a togliere almeno una spina all’umiliazione dell’uomo?”
Mi risuona nella testa la risposta di Caino a Dio che gli chiede di Abele: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. L’altro ci è affidato, per la sua umanità, fragile quanto la nostra. E noi possiamo aiutarlo, proteggerlo, sfamarlo, ammonirlo, consolarlo.
Abbiamo un programma di lavoro immenso in 14 punti: le sette opere di misericordia corporale e le sette opere di misericordia spirituale.
Il primo atto è dare all’umiliato il ruolo del protagonista, metterlo al centro della scena, dargli voce e accogliere il suo bisogno di aiuto.
Ogni giorno possiamo sempre scegliere se umiliare o dare spazio, se essere fratello o prepotente. Senza mettere nessuna corona. Ma ponendosi davanti, ad altezza d’uomo.
UN DIO GLORIOSO ANCHE NELLA TRIBOLAZIONE
— Consolazione e sofferenza: un binomio impossibile?
Le afflizioni non si possono evitare, non del tutto. Siamo intrinsecamente segnati dalla fragilità in quanto esseri umani.
Ma le ferite fisiche e mentali non tolgono automaticamente vita. Siamo comunque pari a chi in questo momento è integro, perfetto, felice, fortunato.
Dolore e limiti non pregiudicano il valore della persona. Anzi, se possibile, la rendono più preziosa.
Ogni mattina l’infermiera inizia il suo turno prendendosi cura dell’igiene dei pazienti affidati a lei. Sono persone gravissime, il loro corpo è ferito profondamente, non parlano, non camminano, non mangiano, respirano aiutate da una cannula tracheostomica. L’igiene del mattino è lunga e delicata. I pazienti sono in ordine, puliti, profumati, accarezzati. I loro corpi sono curati, si fa di tutto per evitare piaghe, anche un piccolo arrossamento.
La cura è un gesto di grande rilevanza etica, proprio perché è un gesto ben fatto, con precisione tecnica, con metodo e dedizione.
È il corpo bello dell’Ecce Homo, la sofferenza c’è realmente, ma il corpo non è deturpato, trasmette luce, nonostante le ferite, nonostante il sangue.
La luce viene da dentro e nello sguardo si riflette il gesto di cura, ogni santo giorno.
La cura concreta restituisce dignità al corpo, gli conferisce valore. Anche se quell’uomo, quella donna, quel vecchio non sentono o non capiscono, non si dismette nemmeno per un secondo la loro umanità. Il loro valore esige il rispetto che si ha per Dio, che, lo crediamo, abita quella piccola persona ferita, inerte, bloccata nella gabbia di un corpo deficitario. Quella vista può fare senso, ma soprattutto ha un senso.
Il nostro sguardo può annullare l’altro e ridurlo alle sue deiezioni o ri-generarlo nella sua umanità.
Questa possibilità dà vita, dà speranza, dà consolazione. V
orremmo che fosse così per ciascuno di noi, in ogni situazione di limite, quando la fine si trasforma in una nuova nascita.
E di fronte a questa verità si può anche piangere, questa volta di gioia.
Intervista a cura di Barbara Sartori
Articolo pubblicato sull'edizione di venerdì 25 marzo 2016