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Casa della carità: «Più che il fare, conta l’essere»

Volontari e ospiti della Casa della Carità raccontano la loro esperienza di incontro
con le “tre mense”: la Parola, l’Eucaristia, i fratelli. “Qui mi sono sentito libero”

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Adua tutte le mattine si alza alle 5 e mezza per preparare la colazione. Paolo tiene in ordine il giardino e gestisce la raccolta differenziata con la professionalità di un operatore del ramo.
Ad Elisa sembra di non far nulla, stando semplicemente a chiacchierare. “Vengo dagli scout, ho ben presente cosa vuol dire «servizio», ma quando sono arrivata qui mi sentivo inutile a passare solo del tempo con le persone della casa. Invece ho capito che quel che conta davvero non è il fare, ma l’essere, anzi, l’esserci”.

La Casa della Carità di via Vescovado è una famiglia con la porta sempre aperta.
Entri in cucina il Giovedì Santo e vedi le signore che discutono del pranzo di Pasqua. Passi in salotto e ci sono gli ospiti con un gruppo scout arrivato da Medesano, nel Parmense, per qualche giorno di condivisione.
“Siamo un’espansione del tabernacolo della Cattedrale”, sorride suor Anna Bimbi, carmelitana minore della carità e responsabile della comunità che si appresta a spegnere - il giorno della festa della Madonna del Popolo, a cui è intitolata - le 18 candeline di presenza in città.


Chi entra, esce cambiato

Non è una struttura sanitaria, né una casa accoglienza, “né un luogo dove si risponde a dei bisogni”, puntualizza suor Anna, che nella casa è affiancata dalla consorella suor Elena Bongiovanni.
Nell’intuizione del fondatore, don Mario Prandi - reggiano di Fontanaluccia -, la Casa della Carità altro non è che una famiglia all’interno della Chiesa che la accoglie, una palestra di misericordia quotidiana che vive, annuncia e testimonia le “tre mense”: la mensa della Parola di Dio, dell’Eucaristia e dei poveri.
Spiazza il visitatore occasionale, come chi vi arriva da volontario o come ospite. “La prima volta che sono venuto è stato nel 2012, con gli amici della Santissima Trinità. Era un periodo in cui ero molto «sotto» tra gli esami al Conservatorio e gli studi, estremamente autocritico”, ricorda Giuseppe Porcari, 26 anni, oggi in seminario all’Alberoni. “Cercavo uno sfogo, un modo per sentirmi bravo. Ma loro - e guarda gli ospiti della Casa della Carità - mi hanno smascherato: non hanno paura di farsi vedere per quel che sono. La loro libertà mi ha conquistato. Davvero i poveri sono un sacramento nel quale incontri Gesù. Chi entra qui ne esce cambiato, perché è la grazia di Gesù che opera nella Casa della Carità”.

Annuisce Elisa Daini, di professione ostetrica, che frequenta la Casa da un anno. Un curriculum di tutto rispetto alle spalle - tra la competenza sanitaria e un’esperienza di volontariato in Africa - che la rendeva sicura. “Invece mi sentivo inutile, perché se stavo a cena e non potevo almeno lavare i piatti non mi sembrava di far nulla. Ho imparato che aver cura delle relazioni è il cuore di tutto. Penso a Susanna, che è allettata e non parla: le facevo l’aerosol e all’inizio non sapevo cosa dire, allora cantavo. Un giorno, sentendo la mia voce, ha sollevato le mani: la sua risposta mi ha colpito, mi ha aperto gli occhi”.


Susanna, cuore della casa

Susanna - classe 1993 - è la “piccola” di casa ed una delle primissime ospiti.
“Eravamo andati in pellegrinaggio alla Madonna di San Luca a Bologna, chiedendo in preghiera che ci mandasse un bimbo. Una settimana dopo, ha telefonato una signora parlandoci di Susanna: aveva solo sei mesi”.
Adua è una delle veterane della Casa della Carità. Rimasta vedova e sola, le è stato proposto di venirci a vivere quando ancora erano in corso i lavori di ristrutturazione in Vescovado. Si è fidata e ha detto “sì”.
Ha trovato una seconda famiglia ed è diventata lei stessa mamma per tanti. “Quando c’era il preseminario venivano i ragazzi a pranzo e facevo trovare tutto pronto. E quanti bambini ho curato, figli di ragazze che avevano bisogno di andare a lavorare e non sapevano dove lasciarli!”.
Anche Susanna è una delle sue “figliocce”. Se la ricorda bene quando, da piccina, ne combinava più che Bertoldo. Una volta si era chiusa in bagno. Faceva i capricci se non la si portava a prendere il gelato o l’aranciata in piazza Duomo.
Oggi Susanna per la sua disabilità è costretta all’immobilità, eppure continua a dare tanto alla Casa.
“È il simbolo vivente di Gesù innocente che si offre a noi e così anche noi siamo stimolati a darci ai fratelli più che possiamo”, riflette Walter, che vive in via Vescovado da 14 anni. Artista poliedrico - dipinge, gioca a calcetto, suona la chitarra (“sapevo qualche accordo, i volontari mi hanno incoraggiato a continuare”) - Walter è tra coloro che hanno fatto il passaggio dal vivere la Casa come una comunità al viverla come una famiglia. È uomo di profonda preghiera, anima le celebrazioni col canto e la musica.
Paolo invece insieme a Stefanino - come tutti lo chiamano - serve messa come ministrante. “È molto attento alla preghiera per chi ha bisogno - fa notare suor Anna -. Prima ancora che glielo si chieda, lui si ricorda”. Anche quando esce e incontra qualcuno che chiede l’elemosina, risponde, sincero: “Soldi non ne ho, non te ne posso dare. Ma posso pregare per te”.


Vivere la maternità

La Casa della Carità ha aiutato Adriana ad avvicinarsi a Dio. È lei a rivelarlo.
“Vivevo qui davanti, ma non mi ero mai chiesta cosa fosse questa casa. Poi mi sono trovata in una situazione difficile, non riuscivo più a vivere sola. Suor Anna mi ha proposto: dai, vieni a pranzo da noi qualche volta... E sono rimasta”.

Adriana con Adua è l’altra “mamma” della casa. “Stefanino ha avuto un’esperienza bellissima con i suoi genitori, ma sono mancati a poca distanza l’uno dall’altra ed è arrivato da noi - spiega suor Anna -. Ora gode di questa nuova maternità che gli viene offerta”.

Barbara Sartori

Articolo pubblicato sull'edizione di venerdì 1° aprile 2016

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