Menu
logo new2015 ok logo appStore logo googleStore

Silvio Cattarina è fondatore della comunità per minori “L’Imprevisto” di Pesaro

"I giovani che si drogano?
Orfani privati di un'eredità"

Nessuno li ha informati che su questa terra c’è una Presenza che rende possibile il vivere.
Mia mamma mi ripeteva: 
«Silvio, cerca di avere un cuore grande. Il resto verrà di conseguenza»

cattarina



“Mi faccio”. L’espressione più comune tra i tossicodipendenti Silvio Cattarina non l’ha mai digerita. Al punto da dedicare la sua vita alla lotta contro la droga.
Classe 1954, trentino, sociologo e psicologo, Silvio si avvicina al mondo della tossicodipendenza come operatore nella Comunità terapeutica di Gradara e poi in quella di San Carlo a Cesena, di cui è uno dei fondatori.
Nel 1990 con don Gianfranco Gaudiano dà vita alla Comunità terapeutica per minori devianti e tossicodipendenti a cui fa seguito a Pesaro la Cooperativa sociale “L’Imprevisto” che in oltre 30 anni di attività accoglie più di 800 ragazzi.
“Mi faccio - spiega Cattarina - è la frase di chi, ritenendo di non aver ricevuto niente dalla vita, cerca di costruirsi da solo: è drammatico e impossibile. A me, invece, sono stati offerti molti doni: la famiglia, la fede, i parroci della mia infanzia”.

“Dove sei stato finora? Ti aspettavamo!”

Domenica 16 settembre alle ore 10.15 nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Gotico Silvio Cattarina sarà ospite della “Grande Festa della Famiglia” in coppia con l’amico Paolo Cevoli, il comico reso noto dagli schermi di “Zelig” per l’incontro “Un imprevisto è la sola speranza”: pensieri e parole a ruota libera.
Introduce la giornalista Barbara Tondini.

— Dalla consapevolezza di aver ricevuto tanto dalla vita ha mossi i primi passi nel suo impegno accanto ai tossicodipendenti. Ce li racconta?
All’inizio, cercavo di aiutare i tossicodipendenti uno a uno, nella quotidianità, ma svoltato l’angolo il richiamo della droga era troppo forte. Occorreva fondare una comunità terapeutica, cioè un luogo appartato, basato su regole e su un progetto di vita in grado di fornire una proposta totale, significativa.

— Nasce cosi “L’imprevisto”. “L’imprevisto è la sola speranza”, scriveva Montale nella poesia “Prima del viaggio”.
Don Giussani ci spiegava questa poesia e ci affascinava. L’imprevisto è un grande incontro, un avvenimento che ti sorprende e ti abbraccia, come se ti avesse aspettato da sempre .

— A chi arriva in comunità lei ripete spesso: “Ma dove sei stato in questi anni? Ti aspettavamo!”. Chi aspetta chi?
Un giorno dissi a un ragazzo che se mi avesse accolto con la prospettiva di realizzare insieme qualcosa di grande, sarei stato molto felice. È un’attesa reciproca, ma chi veramente attende sempre è Dio, che non ci abbandona mai. Vale anche per i ragazzi più sfortunati: se Dio ti toglie un padre, subito te ne manda tanti altri, anche se a volte non li vedi. Nella realtà c’è sempre una sovrabbondanza di grazie.

— La sua famiglia l’avrebbe preferita nelle vesti di psicologo d’ufficio?
Mia moglie ha sempre creduto nel mio lavoro. Dopo alcuni anni trascorsi senza percepire stipendio, le chiesi se fosse stato meglio rinunciare. Si oppose: disse che avevo un carisma da seguire e avrebbe lavorato lei. Così è stato. A poco a poco ho iniziato a guadagnare e oggi abbiamo quattro figli.


L’amicizia con Cevoli

— Anche Paolo Cevoli ha creduto nel suo progetto e tra voi è nata una profonda amicizia. Come vi siete conosciuti?
A La Thuile, in Val d’Aosta, dove soggiornava con la famiglia. I miei ragazzi, chiamati a offrire una testimonianza, lo riconobbero subito tra il pubblico. “Silvio, c’è quello di Zelig”, mi fecero notare. Erano stupiti perché lui ascoltava noi e non il contrario. Quel giorno cenammo insieme e in seguito, quando venne a trovarci in comunità, iniziò a raccontarci di sé.
Ancora oggi, ogni due mesi, trascorre con noi un pomeriggio. Dice che la voglia di vivere e la profondità dei ragazzi è una verità strabiliante, che non proviene dalle nostre mani.

— Identikit dei giovani che entrano in comunità.
Sono orfani privati di un’eredità. Nessuno li ha informati che su questa terra c’è una Presenza che rende possibile il vivere. Per certi aspetti sono la parte più vera di noi stessi perché i loro sbagli mostrano che esiste qualcosa che salva, diverso dalla droga e per cui vale la pena rendere l‘omaggio del cuore. La libertà dell’uomo è il grido a Dio, la richiesta di renderlo degno di compiere cose grandi. Mia mamma mi ripeteva: “Silvio, cerca di avere un cuore grande, il resto verrà di conseguenza”.
I giovani d’oggi inseguono il desiderio di essere perfetti, ma non sanno che la forza e la bellezza ti vengono incontro e ti offrono doni che, se confezionati con le nostre mani, sarebbero piccoli e miseri.


L’amore non si divide, si moltiplica

— E lei da ragazzo com’era?
Desideravo che mi accadessero grandi cose. Quando un amico mi propose di iniziare l’avventura, con i drogati non volevo avere nulla da spartire. Insistette e ci rivolgemmo a un sacerdote che ci propose di iniziare la mattina seguente. Alle otto mi presentai, il mio amico no. Vedi come avvengono le cose? La nostra vita è condotta da un Altro.

— Lei si è recentemente opposto alla proposta delle “sale dell’iniezione” avanzata dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Perché non servono?
Sono esperienze effimere e non risolvono il problema del cuore dell’uomo. Si può uccidere con un colpo di pistola o con un cuscino sulla bocca, ma sempre di morte si tratta. Occorre rispondere al bisogno del cuore.
Un genitore mi confidò di essersi interrogato a lungo su ciò che era successo al figlio. La vera domanda è “perché è successo”, non “che cosa”. L’idea di Pisapia è sul “che cosa”.

— Qual è il pensiero più significativo che le ha rivolto un ragazzo?
L’ultimo giorno di permanenza, un giovane mi ha chiesto se per me lui era stato il più importante. Gli ho risposto di sì, ma lo avrei fatto con tutti. Non ho elargito il 25% di amore a ciascuno dei miei quattro figli, ma il 100%. L’amore non si divide, si moltiplica.

— Perché la sua comunità è diversa dalle altre?
Non usiamo metodologie predefinite, ma siamo noi stessi. Con i ragazzi mi comporto come con mia moglie e i miei figli: se mi aspetto grandi progetti o se sono arrabbiato con Dio lo comunico. Noi operatori ci impegniamo affinché i ragazzi non si leghino soltanto a noi, ma capiscano che l’aiuto che offriamo proviene da qualcun Altro. Papà e mamma, come mi veniva insegnato da bambino, sono ciò che portano.


Tra la roccia e il mare

— È singolare anche l’ambiente. Ci si alza e si vede il mare.
Davanti agli occhi il mare, dietro le spalle un monte. Una mamma mi ha confidato che nei primi mesi in cui accompagnava il figlio riusciva a vedere solo la roccia in tutta la sua drammaticità. A poco a poco, il suo sguardo ha iniziato a posarsi sull’acqua e sulla luce dell’orizzonte, in cui intravedeva la speranza.
Quando i ragazzi scrutano il mare, mi fermo ad osservarli. A volte ho la sensazione, come diceva don Giussani, che possa emergere qualcuno che ti abbraccia. E ti fa capire che sei sempre stato desiderato e il tuo passaggio sulla terra non è vano: serve a tutto il mondo, ai secoli passati, a quelli che verranno.

Silvia Manzi

Articolo pubblicato sull'edizione di mercoledì 12 settembre 2012

"Il Nuovo Giornale" percepisce i contributi pubblici all’editoria.
"Il Nuovo Giornale", tramite la Fisc (Federazione Italiana Settimanali Cattolici), ha aderito allo IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria) accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.

Amministrazione trasparente