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L’oncologo Mario Melazzini da 8 anni è malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica

Prigioniero del mio corpo,
ma libero di vivere

"La Sla mi ha insegnato ad accettare l’amore offerto da chi mi circonda,
ad inseguire con un’energia nuova quello 
che ancora posso fare"

melazzini



“Io di inguaribile ho solo la voglia di vivere”: la frase di Mario Melazzini è diventata il titolo di un libro e perfino di un club, di cui è socio fondatore, insieme al giornalista Massimo Pandolfi e ad una serie di altri personaggi, più o meno celebri, tra cui il piacentino Giampiero Steccato, affetto dalla sindrome di Locked In. Quando si dice che le parole sai da dove partono ma non dove arrivano.
“Di inguaribile, ho solo la voglia di vivere”. Ne ha fatta di strada questa affermazione del dott. Melazzini, il medico oncologo all’ospedale di Pavia, da otto anni malato di Sla, Sclerosi Laterale Amiotrofica. Insieme all’amico Pandolfi, il dott. Melazzini sarà a Piacenza nella mattinata di domenica 4 settembre, ospite della “Grande Festa della Famiglia”. Alle ore 10, nel salone di Palazzo Gotico, il presidente di Aisla, l’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, interverrà sul tema “Nella malattia, la speranza”.

Abbiamo raggiunto via mail il dott. Melazzini per anticipare alcuni degli spunti di riflessione che approfondirà nell’incontro a Piacenza.


“All’inizio fu tremendo, volevo farla finita”

— “Come la malattia che mi uccide mi ha insegnato a vivere” è il sottotitolo del libro in cui ha raccontato come, d’improvviso, da medico si è ritrovato malato. È un’affermazione che immagino avrà sollevato non poche obiezioni. Lei cosa risponde?
Sono convinto che la mia esperienza di malattia mi abbia dato più di quello che mi ha tolto: è vero, di fatto sono prigioniero del mio corpo, non posso più muovermi, nutrirmi, respirare autonomamente, ma la Sla non mi ha comunque portato via le emozioni, i sentimenti, facendomi anzi capire che l’essere conta più del fare. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima.
Un malato, se adeguatamente assistito e preso in carico, se non è vittima dell’isolamento e dell’esclusione sociale, ha ancora la voglia di essere e di sentirsi utile a se stesso e alle persone che lo circondano.
Per me la malattia è così diventata un valore aggiunto, nel mio percorso di vita.

— Lei non ha nascosto, all’inizio, di aver pensato di farla finita. Cosa ha fatto scattare la molla, dalla disperazione alla speranza?
Fu tremendo conoscere la diagnosi. Pensavo che con la Sla non potessi fare più nulla. Allontanai tutti, passai diversi mesi da solo in montagna. Non accettavo l’aiuto di nessuno. Volevo accelerare la malattia, pensai persino al suicidio assistito e toccai davvero il fondo. Mi hanno aiutato due carissimi amici: Ron, amico fraterno, che con discrezione mi è sempre stato vicino, ed il mio padre spirituale, Silvano Fausti, un gesuita che mi consigliò tra l’altro, la lettura del Libro di Giobbe. Un’esperienza quest’ultima, che mi ha aiutato a capire l’essenza dell’esistere.

— Cosa si impara da una malattia come la Sla?
La Sla mi ha insegnato a dipendere dagli altri, ad adattarmi a tutte le situazioni e a non dare nulla per scontato. Ma anche ad apprezzare le piccole cose, ad accettare l’amore e l’aiuto offerti da chi mi circonda, ad inseguire con un’energia nuova quello che posso ancora fare per me, per i miei cari, per i miei malati, per i miei compagni di malattia; e tutto ciò mi rende felice.


Il valore dell’ascolto e le risorse per l’assistenza

— Come oncologo, però, lei ha conosciuto il dolore anche prima, e molto da vicino, nei suoi pazienti e nei loro familiari. Vuol dire che la Sla l’ha fatta crescere anche professionalmente, come medico?
Grazie alla malattia ho iniziato un percorso “formativo” nuovo nel mio essere medico, con una nuova sensibilità rispetto ai bisogni dei malati. Questa esperienza mi ha insegnato e mi insegna quotidianamente qualcosa di nuovo. Soprattutto ho capito che uno dei bisogni prioritari dei malati e dei loro familiari è la loro necessità di essere ascoltati.

— Umanizzare la medicina è diventato uno slogan ricorrente dei convegni medici. È possibile, qualcosa si muove, o alla fine per l’Asl è sempre un “problema di soldi”?
Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita.
La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che vanno e devono essere implementate e potenziate. I lavori della Consulta ministeriale delle Malattie neuromuscolari hanno dimostrato che non è un problema di soldi: per assicurare percorsi di continuità assistenziale omogenei in tutto il Paese basterebbe razionalizzare al meglio le risorse che ci sono già.


I malati informati sono più sereni

— Quali sono i bisogni dei malati e delle famiglie che restano ancora inascoltati?
Credo che, prima di tutto, i malati e i loro familiari abbiano la necessità di essere informati: sicuramente sulla malattia, sul suo decorso sulle problematiche ad essa connesse ma anche su tutte le opzioni disponibili, dagli ausili agli strumenti legislativi fino alle attività delle associazioni di volontariato, per affrontare al meglio la vita quotidiana.
Le persone che convivono con la Sla in maniera informata sono più serene e consapevoli. A volte i malati chiedono solo di essere aiutati a vivere: perché la persona sia libera di fare le sue scelte bisogna però garantire la continuità della presa in carico del paziente. Quando essa manca il malato può essere portato a compiere scelte rinunciatarie, dettate da angoscia, disperazione e solitudine.

— Lei è padre di tre figli. Comunicare una malattia è una delle cose più difficili per un genitore. Per lei com’è stato? E come la affrontano adesso?
Difficilissimo all’inizio quando ero molto concentrato sul ciò che perdevo e non sarei più stato in grado di fare. Ma il parlare con loro della malattia, renderli partecipi del mio, anzi del nostro percorso, su ciò che avremmo potuto fare ancora, è diventata la nostra quotidianità.


Alla sera vado a letto stanco, ma felice

— Lei convive con la Sla da ormai molto tempo. Ha mai paura? Come la combatte?
Sono ormai 8 anni e considero la malattia come una condizione possibile dell’esistenza di ciascuno di noi. Pur con tutte le limitazioni fisiche che la Sla mi impone, mi sforzo di pensare soprattutto a cosa posso ancora fare per me stesso e per gli altri: nel lavoro, in famiglia, come amico, da presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica in tutti i contesti in cui si parla di disabilità.
Ho l’enorme fortuna di poter contare su un cervello che ancora funziona. La paura più grande è quella dettata dalla presenza di un certo tipo di cultura nel nostro Paese, secondo la quale invece la vita in certe condizioni perde in dignità. Credo sia urgente un “salto” culturale in avanti. La dignità della vita, di ogni vita è un carattere ontologico che non può dipendere dalla sua qualità misurata solo esclusivamente secondo un mero processo utilitaristico.

— Chi è Mario Melazzini oggi? Cosa dà “gusto” alle sue giornate?
Alla sera sono molto stanco ma felice. Al mattino mi alzo contento. La malattia mi permette di comprendere i valori reali della vita, di apprezzare le piccole cose, di quanto sia fortunato. Mi ha permesso di capire quanto sia importante chiedere aiuto e soprattutto che la vita è un dono e come tale deve essere vissuta fino in fondo. Certo, ho anche parecchi pensieri: sento di avere parecchie responsabilità, ma con calma e serenità tutto si affronta.

Barbara Sartori

Aisla: combattere l’isolamento

Dal novembre 2010 a Piacenza è attiva l’associazione
che si rivolge ai malati di Sla e alle loro famiglie

Quando le famiglie non si arrendono di fronte a una diagnosi infausta nascono delle amicizie che danno un senso anche a un dolore che pare non poterne avere. È nata con questo obiettivo anche a Piacenza, nel novembre 2010, grazie all’impegno di tre figlie di malati di Sla - Silvia Borlenghi e Sara e Daniela Zanardi - una sezione dell’Aisla, l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, presieduta a livello nazionale dal dott. Mario Melazzini.
La Sclerosi Laterale Amiotrofica, conosciuta anche come “Morbo di Lou Gehrig”,” malattia di Charcot” o “malattia dei motoneuroni”, è una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria. Generalmente si ammalano di Sla individui adulti di età superiore ai 20 anni, di entrambi i sessi, con maggiore frequenza dopo i 50 anni. In Italia si manifestano in media tre nuovi casi di Sla al giorno e si contano circa 6 malati ogni 100.000 abitanti.
La Sla in genere progredisce lentamente e la gravità può variare molto da un paziente all’altro. Al momento non esiste una terapia capace di guarire.
Nella nostra provincia ne sono affette una trentina di persone. Presso l’Asl è nata una apposita “Commissione Sla”, che comprende diversi specialisti, perchè la malattia, partendo dal sistema nervoso centrale, colpisce gradualmente gli altri organi e impone un approccio multidisciplinare attraverso un team composto da neurologi, fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, otorini, pneumologi e gastroenterologi...
“L’essere colpiti da una malattia del genere non può essere liquidata solo come una sfortuna - riflette Silvia Borlenghi -. L’associazione nasce anche per dare un senso a questo dolore. Desideriamo che quel che abbiamo maturato in termini di competenze e conoscenze venga messo a frutto per altri. E desideriamo offrire una presenza, un sostegno anche psicologico ai malati e ai loro familiari”.
“Questi malati ci danno delle grandi lezioni di coraggio - le fa eco Daniela - e sono felici che si parli della malattia. «Quel che mi fa soffrire di più - mi ha detto una volta papà - è sentirmi isolato, rifiutato dal mondo»”.
Chi desidera contattare Aisla, sia per informazioni sia per diventare volontario, può chiamare il 347.5906360 o scrivere ad .

B. S.

Articolo pubblicato sull'edizione di martedì 30 agosto 2011

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