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Il racconto dell’estate / 5

Un'opera che continua

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Dal quel lontano giorno di settembre in cui Vittorio, ancora ragazzino, si era rivolto alla Madonna Addolorata, affidando a Lei il suo sogno di farsi prete, di acqua sotto i ponti ne era passata davvero tanta.
E nessuno forse, tranne lui ovviamente, sperava più che quel sogno un giorno si realizzasse.

Vittorio era ormai un personaggio pubblico, un uomo avanti con gli anni, che nella vita aveva realizzato tanto.
Tanto ma non tutto. E la Madonna lo sapeva.

Fu la Chiesa africana a fare il primo passo, scavalcando ostacoli e cavilli burocratici che invece si incontravano in diocesi.
Così, d’accordo con il vescovo Manfredini, Vittorio Pastori fu ordinato diacono della Chiesa d’Uganda dal vescovo di Gulu, mons. Cipriano Kihangire, il giorno di Natale del 1976, ad Awach.
La strada per il sacerdozio però, era ancora lunga e difficile. Ma lui, l’ex ristoratore di Varese, non era tipo da arrendersi facilmente.

Andava avanti, dividendosi come sempre tra le lunghe permanenze africane (normalmente da novembre a marzo ogni anno) e le estenuanti galoppate su e giù per l’Italia, per far conoscere a tutti il movimento e sensibilizzare le persone alla causa della fame nel continente africano.

Passò ancora altro tempo, nel corso del quale il diacono Vittorio e i suoi collaboratori di Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo, continuarono a seminare il bene non solo in Uganda, ma anche in molti altri Paesi del Continente Nero piagati dalla fame e dalla miseria.

La svolta per diventare prete arrivò soltanto nella primavera del 1983 a seguito della nomina di mons. Manfredini ad arcivescovo di Bologna.
Questi avrebbe voluto che l’amico Vittorio si trasferisse subito a Bologna con tutte le sue attività missionarie e per convincerlo a trasferirsi sul serio fissò addirittura la data della sua consacrazione sacerdotale, con l’intenzione di incardinarlo poi nella diocesi bolognese.

Di questo suo progetto il vescovo Manfredini mise al corrente don Pietro Maggi, rettore del Seminario di Piacenza, al quale chiese di preparare personalmente Vittorio al sacerdozio, organizzando un corso accelerato e su misura per lui, che ormai per mille e ovvi motivi non poteva più frequentare un regolare corso di studi in Seminario.

Alunno e professore si incontravano nei periodi in cui Vittorio non era in viaggio.
“Aveva un entusiasmo commovente – ricorda don Pietro – anche perché sentiva avvicinarsi finalmente, a 57 anni suonati, quel traguardo cui aveva sempre aspirato e che per una serie incredibile di circostanze gli era, fino ad allora, sfuggito”.

Purtroppo però, la morte improvvisa dell’arcivescovo Manfredini il 16 dicembre ‘83 nel sonno, oltre a precipitare Vittorio in uno stato di profonda prostrazione, interruppe sul più bello e parve stroncarlo per sempre, il progetto relativo alla sua consacrazione sacerdotale.
Stravolto dal dolore per la perdita dell’amico di una vita, Vittorio decise che per lui sarebbe stato meglio cambiare aria per un po’ e partì subito per l’Africa.

Appena arrivato a Kampala capì come forse mai prima d’allora che il Signore è fedele e che là dove una porta pare chiudersi, Lui è in grado di aprirne un’altra.
Si vide infatti recapitare due lettere: una del vescovo di Gulu mons. Kihangire, nella quale gli si comunicava la sua intenzione di ordinarlo di persona sacerdote, e l’altra del Nunzio Apostolico in Uganda, che assicurava il suo interessamento affinché il progetto andasse in porto.
Dalla tristezza alla gioia, dallo smarrimento alla speranza.
Questo è Dio.
Finalmente, dopo tanta attesa e tanta sofferenza, Vittorio poteva realizzare il suo grande sogno.

Il giorno dell’ordinazione venne. E fu proprio quello che aveva previsto l’arcivescovo Manfredini quando era ancora in vita.
Stessa data, stesso luogo: 15 settembre 1984, Palasport di Varese.

La cerimonia fu imponente: cinque vescovi concelebranti, cento sacerdoti, 5 mila le persone presenti, accorse da tutta Italia per fare festa all’amico Vittorio, nel giorno più importante della sua vita.
Lui, Vittorione, gli occhi strizzati per la concentrazione e le mani giunte, aveva addosso l’emozione di una vita intera e il cuore talmente gonfio di gioia che pareva uscirgli dal petto.
Quando il vescovo ugandese Kihangire gli impose le mani pronunciando la formula di rito, scoppiò un lunghissimo applauso liberatorio. Era fatta.
Il Vittorione nazionale era diventato sacerdote, alla tenera età di cinquantotto anni.

Restava ora da sciogliere il voto fatto quarantotto anni prima alla Vergine Addolorata, che in tutto questo tempo aveva conservato nel cuore il desiderio del piccolo Vittorio.
E così all’indomani della consacrazione don Vittorio celebrò la sua prima messa ai piedi della Madonna Addolorata, con la voce tremante per l’emozione e la riconoscenza.
A Lei don Vittorio Pastori affidava la sua vita, la sua opera e il grande dolore del mondo della fame.

In pista fino alla fine

Don Vittorio ebbe ancora dieci anni di vita per fare il prete. E lo fece esercitando il suo sacerdozio sia in Africa, dove era stato incardinato e dove c’era estremo bisogno di braccia che portassero oltre al pane per il corpo anche quello per lo spirito, sia in Italia dove le diocesi facevano a gara per invitarlo.
A Piacenza fu molto attivo nella parrocchia di San Giuseppe Operaio, la sua parrocchia. Qui la gente lo ricorda ancora per le omelie chilometriche, che a volte sforavano nella messa successiva e per le sue infaticabili permanenze in confessionale, anche per delle intere mattinate e serate.
Era un terremoto, don Vittorione: un terremoto di bene.
Aveva un modo di parlare, semplice e diretto, che toccava il cuore e smuoveva gli animi.
Le sue parole mettevano in discussione, perché non parlava per sentito dire, ma raccontava la verità dei drammi che aveva visto e udito.

Del suo impatto con il mondo della fame raccontava: “Quando arrivai per la prima volta in Africa, io che mi credevo una persona per bene impegnata nella Chiesa del Signore, compresi che fondamentalmente ero un citrullo e che il mondo aspettava, aspettava noi cristiani.
L’ evangelizzazione non è mai disgiunta dalla promozione umana: che servirebbe dire ad un infermo piagato, ammalato, affamato, che Gesù è buono?
La Carità, l’immediatezza, la concretezza devono sempre es- sere le nostre prerogative.
La Carità è l’essenza del Cristianesimo: attraverso la Carità conosceranno Gesù”.

Ai bambini insegnava a non pretendere regali per Natale, ma raccomandava di pensare ai fratellini africani, che non hanno nemmeno il sapone per lavarsi e di rinunciare a qualcosa per loro.
Ai giovani diceva che bisogna essere coraggiosi, fare il tuffo nella fede, rinunciare agli idoli che il mondo propone per abbracciare Cristo nel fratello bisognoso.
A tutti aveva qualcosa da dire, da insegnare, per risvegliare le coscienze troppo spesso assopite nell’ indifferenza.
Furono in molti a lasciarsi scuotere dalla sua testimonianza di uomo di Dio, sempre in prima linea.

Don Vittorio aveva seminato tanto bene, spesso nella sofferenza e nell’incomprensione.
Era tuttavia andato sempre avanti, nel nome di quel Cristo al quale aveva donato tutta la vita.
Giunto ormai al tramonto, poteva guardarsi intorno e vedere le messi biondeggiare dei frutti copiosi di tanta semina.

La sera della vita si avvicinava e ad un certo punto don Vittorio capì che quel suo grande corpo non ce la faceva più.
Le soste periodiche nella Clinica dell’amico professor Luraschi a Pontedell’Olio non gli bastavano più per tamponare le sempre più numerose “avarie”.

Le fatiche e i disagi dei viaggi continui, regolarmente sconsigliati dai medici e cionondimeno sempre compiuti, lo avevano ridotto allo stremo.
Capiva di essere arrivato in fondo alla sua corsa. Cocciuto com’era però, non volle arrendersi.
Decise di tornare in Uganda
. Era l’inverno del 1993. Fu il suo ultimo viaggio. Il suo saluto ai fratelli d’ Africa.

Ritornò in Italia nell’estate successiva, che la sua vita era già arrivata al conto alla rovescia finale.
Dopo un periodo a Folgarida con gli amici di Africa Mission, fu ricoverato il 17 agosto nella Clinica del professor Luraschi ma fu subito chiaro che non c’era più molto da fare.
I medici si prodigarono in tutti i modi, ma la cirrosi aveva ormai divorato tutto il fegato.
Vegliato continuamente dagli amici più fedeli, don Vittorio se ne stava semisdraiato, accasciato su un lato, in stato di coma epatico.

La mattina del 1° settembre 1994 ricevette il sacramento dell’unzione degli infermi.
Nella nottata successiva un breve, sorprendente risveglio.
Chi lo vegliava non ebbe però nemmeno il tempo di rallegrarsene e sperare magari in qualche miracolo, perché nel giro di pochi minuti don Vittorio si era di nuovo assopito e questa volta per sempre.
Erano da poco passate le sei e mezzo del mattino di venerdì 2 settembre quando Vittorione ritornava alla casa del Padre.

Il giorno seguente al decesso, la salma fu trasportata nella chiesa di San Giuseppe Operaio, dove per tutta la domenica oltre un migliaio di persone provenienti da ogni parte d’Italia si alternarono per vegliarlo.
Tutto il Paese pianse la perdita di quell’uomo dal cuore grande quanto l’Africa.
Il funerale si svolse il 5 settembre nella Cattedrale di Piacenza.

Le rondini intanto sfrecciavano nel cielo settembrino.
E tra una lacrima di chi piangeva l’uomo e un sospiro di chi lo invocava già santo, loro sarebbero di lì a poco ripartite come tutti gli anni per le calde terre d’Africa.
Questa volta però don Vittorio non le avrebbe accompagnate nel loro migrare. Era già partito infatti per un altro viaggio: quello verso il Paradiso, dove lo attendeva il premio eterno dei giusti e da dove ancora oggi veglia sul suo movimento e su tutta l’umanità dolente.

Da allora l’Uganda sul piano economico è cresciuta, ma i bisogni rimangono grandi.
Le sacche di povertà e le aree di sottosviluppo estremo chiedono ancora aiuti immediati e concreti.
L’opera iniziata da don Vittorio non si è fermata e continua il prezioso compito di servire l’uomo nel nome di Cristo.

Gaia Corrao

Nella foto, don Vittorio con san Giovanni Paolo II.

Pubblicato il 25 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi
2 - Dopo la guerra, nuovi orizzonti
3 - Alla conquista dell'Africa
4 - Nascono Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo


Il racconto dell’estate / 4

Nascono Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo

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La forza della carità

Quei primi viaggi esplorativi del 1972 furono solo l’inizio di una meravigliosa avventura in terra d’Africa che prese il nome, oggi popolare, di “Africa Mission”.
Appena sbarcato a Fiumicino dopo il primo viaggio di febbraio, Vittorione aveva già elaborato nella sua fervida e pratica mente, un primo sia pur casereccio piano d’intervento a favore delle popolazioni affamate dell’Uganda.
Pensò di lanciare tra parenti e amici l’idea di un viaggio missionario.

Fondò a questo scopo l’associazione di sensibilizzazione e promozione missionaria “Africa Mission Safari Club”, con la speranza che i “turisti” dopo aver toccato con mano il dramma della miseria di quei popoli e una volta rientrati, facessero da cassa di risonanza per altri, tutti rigorosamente armati di valigioni pieni di aiuti, da svuotare in Africa.
Un’iniziativa alla buona e forse destinata al fallimento se non fosse vero che la fede sposta le montagne e che il miracolo della moltiplicazione
dei pani non si è verificato una sola volta nella storia, ma continua a ripetersi ancora oggi, laddove c’è qualcuno disposto a credere e ad agire di conseguenza.
I pochi, sparuti “finti” turisti degli inizi divennero col tempo un vero e proprio esercito di persone di buona volontà e “Africa Mission” un movimento ecclesiale che raduna a tutt’oggi molti fedeli in tutta Italia in un lavoro di animazione missionaria e di aiuti materiali e prepara, giovani e meno giovani, alla straordinaria avventura della missionarietà, per un periodo o per tutta la vita, a seconda delle possibilità di ognuno e della chiamata di Dio per ciascuno.

Da quel lontano 1972 la girandola non si è più fermata.
I viaggi su e giù tra il Nord e il Sud del mondo si moltiplicarono all’infinito e il buon Vittorio divenne un instancabile pendolare della carità tra l’Italia e l’Africa.
Anche se non fu sempre facile. Soprattutto in una terra incandescente come l’Uganda, dilaniata da decenni di guerre civili, prostrata dalla follia di terribili dittatori, sconvolta da colpi di stato continui, rivoluzioni, sommosse che ne hanno fatto un paese in stato di guerriglia permanente.
E se a questa instabilità si aggiungono la miseria, le periodiche carestie dovute alla scarsità delle piogge, le malattie, ne esce fuori un quadro tremendamente triste e scoraggiante.

Un quadro che forse avrebbe scoraggiato altri, ma non lui, l’ex ristoratore di Varese, l’omone lombardo scontroso e cocciuto: uno che quando si metteva in testa una cosa tanto faceva e tanto diceva, che alla fine la otteneva.
E lui, voleva aiutare quella gente affamata. A tutti i costi. Anche se in quella loro terra riarsa e sabbiosa rischiò di perdere la vita più di una volta: come quella sera in cui si vide puntare una pistola alla tempia nel corso di un’aggressione da parte di un gruppo di ubriachi che improvvisamente irruppe nella sede di Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo a Kampala.
O come quel giorno che, mentre stava viaggiando a bordo di una Land Rover su una delle tante strade sconnesse ugandesi, incappò in un’imboscata e fu gravemente ferito ad una spalla dalle pallottole del mitra di qualche sventurato.
O ancora quella volta in cui la macchina sulla quale stava viaggiando sbandò, finendo fuori strada e lui fu sbalzato fuori dall’abitacolo, riportando una frattura alla gamba.

Mentre l’autista corse via a cercare aiuti nel più vicino centro abitato, Vittorio rimase così, solo e sanguinante, impossibilitato a muoversi a causa della gamba rotta e in piena savana. Una situazione a dir poco imbarazzante, se si pensa agli animali feroci che abitano la savana e alle ferite della sua gamba.
Il sangue invece dei leoni attirò le formiche giganti, le quali per poco non lo divorarono vivo.
E non è difficile immaginare il ribrezzo e la disperazione di chi, immobilizzato da una frattura, non può difendersi dai morsi di quelle piccole grandi belve.
Fu quello uno dei momenti della sua vita, che Vittorio ricordò sempre con maggiore raccapriccio.

Nonostante tutto, nulla poté più fermarlo.
Per oltre vent’anni, in nome della carità evangelica, si fece pane per gli affamati, acqua per gli assetati, tutto a tutti per salvare a tutti i costi qualcuno.
E ci riuscì.

Uganda, terra di fame

Una terra in cui è più facile morire che vivere: in cui chi non muore di stenti, muore spesso ammazzato.
Una terra in cui speranza e disperazione si alternano in una danza inquietante e misteriosa.
Gli anni del buio per l’Uganda furono il 1979/’80: la situazione del Paese, già precaria, peggiorò con la guerra, e tra le tristi e sanguinose rappresaglie che spazzarono via intere regioni come il West Nile, la siccità cominciò a mietere in Karamoja un’infinità di vittime, specie vecchi e bambini, fino al drammatico picco di 600 morti al giorno.

Vittorio, con l’aiuto di personalità politiche e religiose, lanciò nella Sala Stampa Vaticana un pressante appello a tutto il mondo civile e alle organizzazioni internazionali, perché salvassero dallo sterminio per fame, sete e colera, l’intera popolazione del Karamoja destinata alla distruzione.
Risposero in parecchi al vibrante appello di Vittorione, ma lo sforzo pur grande non poté evitare il disastro, che si tradusse in un bilancio di 20.000 morti nel solo 1980 e nel solo Karamoja.

Il Karamoja occupa una vasta area dell’Uganda Nord-Orientale.
Si tratta di una regione brulla e arida, soggetta a periodiche stagioni di grande secca, responsabili per lo più delle frequenti carestie e caratterizzata da un terreno che solo in alcune zone è adatto alla coltivazione; circostanza quest’ultima che contribuisce ad aggravare la già precaria situazione di una popolazione composta da centinaia di migliaia di pastori seminomadi.

Vittorio Pastori, con l’aiuto di politici del calibro dell’on. Giulio Andreotti, allora Ministro degli Esteri, e grazie anche all’impatto mediatico che la sua figura imponente e forse un po’ curiosa aveva sul grande schermo, riuscì a portare alla ribalta del nostro Paese il dramma dell’Uganda e di altre popolazioni della cosiddetta Africa Nera.
Per un certo periodo fu ospite quasi fisso delle trasmissioni televisive di Mike Buongiorno e Raffaella Carrà. E lui, pur di racimolare aiuti, non lesinava le presenze televisive.
Divenne a suo modo, anche lui una celebrità.

Per aiutarlo si mossero in tanti: gli furono messi a disposizione aerei cargo, containers, tir, macchinari e strumenti, oltre che generi alimentari e medicinali da portare in Africa.
Non gli mancarono però le critiche: quelle mai.
C’era chi lo accusava di protagonismo, per le numerose apparizioni in tv. Certi ben pensanti poi, lo accusavano di usare metodi poco educativi nella distribuzione degli aiuti. Dicevano ad esempio, che cucinare sul posto il riso in quei mega-pentoloni che di solito usava era un assurdo e non risolveva il problema della fame nel mondo.
Dicevano anche che è sciocco portare i panettoni a gente che muore di fame; o distribuire caramelle, come invece soleva fare lui.

Tutta gente, quella che lo criticava, che evidentemente non si era mai trovata, come invece capitava spesso a lui, a dover scegliere, tra tante mani tese e bocche aperte, quella cui dare la ciotola di riso e quella no. Tra chi avrebbe visto l’alba del giorno dopo e chi no.

L’attenzione immediata a chi ha bisogno è stata però unita a numerosi progetti di sviluppo, cresciuti nel tempo, in diversi settori: dai pozzi di acqua ai dispensari, dal sostegno alle scuole per la crescita culturale delle nuove generazioni allo sviluppo dell’agricoltura e alla tutela dell’ambiente, ai centri giovanili.


Le cifre della carità

E proprio a dimostrazione del fatto che non era uno che improvvisava, con i suoi collaboratori, nel 1982 costituì la Ong-Onlus “Cooperazione e Sviluppo”, braccio giuridico e tecnico-operativo di Africa Mission.
“Cooperazione e Sviluppo” svolge la sua attività, avvalendosi di esperti e tecnici di settore che si impegnano nella realizzazione di programmi di emergenza (aiuti alimentari) e piani di sviluppo a più lungo termine (acqua, agricoltura, sameccaniche e scolastiche.

I progetti di cooperazione internazionale portati avanti sino ad oggi inoltre, hanno consentito di raggiungere importanti traguardi, soprattutto in campo educativo e nella lotta contro la siccità e contro le malattie trasmesse da fonti idriche insalubri.
Oggi, Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo è presente in modo stabile in Uganda nella capitale Kampala e a Moroto, capoluogo del Karamoja.

Le cifre che saranno presentate al convegno nazionale di inizio settembre a Varese parlano da sole, con buona pace dei soliti critici intellettuali, che pretenderebbero di cambiare il mondo a suon di teorie e discorsi. E non sanno che la carità, quella vera, si nutre di fatti, non di parole.

Gaia Corrao

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Nella foto, Il gruppo di Amici del Movimento, che hanno siglato la nascita dell’Istituto “Cooperazione e Sviluppo”. Tra essi, al centro con don Vittorio: mons. Enrico Manfredini e al suo fianco l’allora card. metropolita d’Uganda, mons. Emanuele Nsubuga.

Pubblicato il 18 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi
2 - Dopo la guerra, nuovi orizzonti
3 - Alla conquista dell'Africa