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Suor Leonella e noi/1 - L'educazione alla carità inizia in famiglia

La sciarpa della Marietta

1NG 01 03 2018 15 k

Rosa Maria era la più piccola dei tre figli nati dal matrimonio di Carlo e Teresa Sgorbati, contadini di Rezzanello. Per tutti era semplicemente Rosetta.
Che da grande sarebbe diventata suora missionaria nessuno poteva immaginarselo.
La stessa suor Leonella ammetterà di essere stata una bambina birichina, che amava arrampicarsi sugli alberi e fare da caposquadra nei giochi in cortile.
Allegra ed estroversa, del resto, era pure mamma Teresa, dalla quale Rosetta aveva ereditato gli occhi neri e la risata squillante.
Ma Teresa e papà Carlo erano anche ottimi educatori. Gente semplice, dalla fede profonda, impegnati nella parrocchia di Rezzanello allora guidata dal giovane don Paolo Ghizzoni, che diventerà vescovo di San Miniato, in Toscana. Erano impegnati nell’Azione Cattolica
e nella Confraternita del Santissimo Sacramento.
Nonostante le fatiche dei campi, Teresa trovava sempre il tempo per una preghiera in chiesa.
E non trascurava
di visitare le famiglie in difficoltà.
Quando Rosetta aveva
il permesso di accompagnarla al mercato a Gazzola, non mancava mai un salto dalla Marietta, la moglie del ciabattino.
Il marito alzava spesso il gomito e la maltrattava. La donna, presa da qualche forma depressiva, si era messa in testa di essere allergica al fuoco e d’inverno non accendeva la stufa, tenendo i bambini al gelo.
Rosetta
era rimasta colpita dal degrado di quella famiglia.
Aveva iniziato a tenere da parte i soldi della paghetta: voleva comprare una sciarpa di lana per la Marietta, per non farle patire il freddo.

Barbara Sartori

“Un bambino gli ha teso la mano:
da lì, Stefano si è sentito accolto”

Alla Casa della Carità si fa esperienza che la vita ha tanti volti, ma è sempre vita


“Mamma, adesso però andiamo un attimo alla casa?”.
Dicembre 2007. Con le figlie più piccole - allora 6 e 5 anni - Letizia Pellacani era appena stata in ospedale a trovare la mamma, gravemente malata. “Mi ha stupito la loro richiesta. Era come se avessero capito che alla «casa» avrebbero potuto trovare il senso alla sofferenza della nonna”.

Letizia con il marito Andrea sono una delle famiglie che frequentano la Casa della Carità in via Vescovado. Per tutti è “la casa”.
Nella presenza delle suore carmelitane minori della carità e degli ospiti accolti - attorno alle tre mense dell’Eucaristia, della Parola e dei poveri, secondo il carisma del fondatore don Mario Prandi - si fa esperienza, attraverso volti e gesti concreti, della vita nella sua essenza.
“Lì si incontra la persona prima di ogni etichetta con cui oggi siamo portati a identificare l’altro: malato, anziano, disabile...”, riflette Letizia.

La nostra famiglia allargata

Per Letizia la Casa della Carità è diventata nel vero senso della parola una famiglia allargata. A viverci è il cugino Stefano, che ha la sindrome di Down e a 39 anni, figlio unico, è rimasto solo, dopo la morte improvvisa della mamma vedova, nel settembre 2006.
“Da parrocchiana del Duomo vedevo le suore e gli ospiti a messa, passavo davanti al loro giardino. Alla zia avevo promesso che avrei trovato a Stefano una famiglia. La Casa della carità era il luogo che, nel cuore, già desideravo per lui. Provvidenza ha voluto che da desiderio diventasse possibilità”.

Stefano inizia a frequentare la Casa, ma al momento del trasferimento non ne vuole sapere.
“Gli abbiamo fatto anche vedere delle foto di alcuni momenti di festa a cui aveva partecipato: era arrivato a negare di essere lui - ricorda Letizia -. Alla messa, al momento dello scambio della pace, don Giuseppe Basini ha proposto a Stefano di andare lui a portare il segno di pace agli altri: gli avevo detto che era un momento della celebrazione che gli piace molto. Il primo ad andargli incontro è stato un bambino. Da lì ha cambiato completamente atteggiamento, si è sentito accolto”.

Letizia e Andrea volevano che fosse chiaro a Stefano che non si trattava di un abbandono. “Era la nostra famiglia ad assumere una nuova forma: andavamo lì a pranzo al sabato, con i figli.
Anna ed Alice avevano 5 e 4 anni e partecipavano anche ai Vespri, erano contente perché - dicevano - «facciamo una preghiera da grandi». Forse fanno più fatica adesso”, ride Letizia.

Proteggere non vuol dire nascondere

“Proteggere i bambini non vuol dire nasconderli, ma vivere con loro, mediandole, situazioni anche complesse, che però fanno parte della vita”.
Elisa Di Nuzzo parla da mamma e da psicologa. Con il marito Nicola frequenta la Casa della Carità da quand’erano fidanzati. “Cercavamo un luogo dove fare, come coppia, un’esperienza di Chiesa e di servizio”.
Sposati dal 2009, dopo alcuni aborti spontanei quattro anni e mezzo fa è arrivata Benedetta. “La casa ci ha sostenuto con la preghiera e l’affetto. Tanto che, quando Benedetta aveva due mesi, abbiamo voluto che fosse celebrata da loro una messa di ringraziamento”.
Per il secondogenito, Emanuele, 15 mesi, la casa è stata il luogo del battesimo e della festa. “Al momento con i bimbi piccoli il nostro unico servizio è portare un po’ di vivacità - prosegue Elisa -. Andiamo a mangiare al sabato ed è come essere dai tuoi: chiami e sai che non ti viene mai detto di no. C’è una grande attenzione per la vita nelle sue fragilità e questo vale anche per i bimbi. Sapendo ad esempio che Emanuele soffre di bronchi, se in casa c’è qualcuno malato suor Teresa mi avvisa che è meglio rimandare la nostra visita”.

“Lui è sempre contento!”
E nella relazione con gli ospiti? “Benedetta comincia a farmi delle domande - spiega Elisa -. È incuriosita soprattutto dalla situazione di Susanna (gravemente disabile, vive allettata, bisognosa di assistenza totale, nda). Tutti la chiamano la «bambina» ma Benedetta capisce che non lo è. Così come capisce che Stefano, pur essendo grande, è diverso dagli altri adulti che conosce. Lo sta studiando... Lui fa il simpatico, l’altro giorno le ha teso la mano e lei l’ha afferrata. Io ne sono stata molto contenta”.
“La casa ti permette di vedere la persona al di là dell’apparenza - ribadisce Letizia -. Una volta, a scuola, la maestra parlando della sindrome di Down aveva detto che si tratta di una cosa molto triste. Mia figlia ha alzato la mano: «Maestra, io non so chi conosci tu, perché mio cugino Stefano invece è sempre molto contento!»”.
B. S.

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