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Da Piacenza all’Ucraina: il racconto di Pollastri a «Mondialità consapevole»

pollastri

A stare in trincea sono gli uomini normali. Accadeva nella Varsavia narrata da Pierangelo Bertoli e accade tuttora nella lunga ed estenuante guerra fra Russia e Ucraina. La storia di Bogdan, partito da Piacenza per il fronte e mai più tornato, è la stessa di tanti civili, totalmente incapaci a maneggiare un’arma, mandati in prima linea a combattere. E, spesso, a morire. A raccontarla è il giornalista di Libertà Marcello Pollastri, intervenuto venerdì 17 marzo al Laboratorio di Mondialità consapevole all’Università Cattolica di Piacenza. Dietro l’aneddoto, raccolto dal giornalista in un’intervista alla vedova, residente a Piacenza, si cela il clima di odio creatosi fra i due popoli dopo lo scoppio della guerra. “Tempo fa in via Badiaschi – ricorda Pollastri – comparve un murale che raffigurava due bambini, uno aveva la maglietta dei colori dell’Ucraina e l’altro di quelli della Russia. Pochi giorni dopo sparì. Molti ucraini, anche a Piacenza, hanno tagliato i rapporti con gli amici russi. Alcuni, addirittura, dicono di desiderare la morte di tutti i russi”.

L’idea di partire

A marzo 2022, quando era passato un mese dall’invasione russa dell’Ucraina, Marcello Pollastri insieme al collega Thomas Trenchi e al fotografo Andrea Pasquali partirono per l’Ucraina. “Quando è scoppiata la guerra, mi prese il desiderio di raccontarla dal punto di vista umanitario – spiega Pollastri, che solitamente scrive di politica –. Anche da Piacenza si era mossa una catena umanitaria, con donazioni di cibo e vestiti al punto di raccolta che allora era in piazza Cittadella, e che ora si trova in via Colombo. Volevo vedere dove finissero quegli aiuti, a chi fossero destinati e cosa succedeva nei luoghi in cui venivano gestiti. Allora proposi a Thomas e Andrea di partire, loro accettarono e iniziammo a cercare un contatto. Un giorno, mentre ero al punto di raccolta, vidi un furgone con la scritta ‘Salvati per servire’: era un’associazione di cristiani evangelici che si occupava di aiuti umanitari, già abituata ad andare nei posti di maggior necessità. Chiesi informazioni e mi risposero che ci avrebbero ospitati”.

Dall’impresa edile dell’ex sindaco Siret i camion per l’Ucraina

“Atterrammo alla sera a Suceava, città romena a pochi chilometri dal confine ucraino. Il presidente dell’associazione ‘Salvati per servire’ ci venne a prendere e ci portò a Dorohoi, a casa dell’ex sindaco della città. Mirel – questo il suo nome – era un importante imprenditore edile. Non appena scoppiò la guerra, però, decise di chiudere l’attività e metterne a disposizione i luoghi come centro di smistamento: lì arrivavano i tir per raccogliere i beni di prima necessità prima di portarli al di là del confine. A casa di Mirel, contando sua moglie, i suoi dieci figli e noi, c’erano trentotto persone. In ogni stanza – prosegue – c’erano profughi, soprattutto donne ma anche qualche uomo ucraino che era riuscito a sottrarsi alla leva imposta da Zelensky. Al mattino si faceva colazione tutti insieme prima di andare nell’impresa edile dell’ex sindaco Mirel ad accogliere i tir che arrivavano dall’Italia. Del tutto casualmente, fra i volontari conoscemmo anche quattro piacentini. Alle 14, dopo aver recitato una preghiera, si partiva per Cernivci, una città ucraina che si trova 50 km dopo il confine, all’epoca non ancora interessata dai bombardamenti, per consegnare il cibo e i vestiti alla popolazione”. Attraversare la frontiera di Siret era un terno al lotto. “Potevano servire tre o quattro ore – rammenta Pollastri –. Per sveltire i controlli, a volte i volontari regalavano ai militari merendine o biscotti”. Una volta di là, si entrava davvero a contatto con la guerra. “La gente era stipata in scuole, orfanotrofi, villaggi e chiese: quelle evangeliche, in particolare, erano diventate tutte sedi per accogliere i profughi provenienti dalle città assediate”.

L’espansione della guerra e i tanti bambini orfani

Il momento più toccante, racconta Pollastri, fu quando giunse la notizia dell’imminente arrivo di un pullman con sessanta bambini rimasti orfani dopo solo un mese di guerra. “A un certo punto – racconta – si sentì una sirena. Noi eravamo spaventati, ma la gente intorno a noi continuava a camminare impassibile sui marciapiedi. Scoprimmo poi che la sirena scattava non appena venisse avvistato un aereo in un raggio di cento chilometri. Se tutti ignoravano il segnale, i bambini, al contrario, dovevano essere portati nelle cantine, al riparo”. Il panico si scatenò, invece, quando arrivò la notizia dei bombardamenti a Leopoli. “Per un attimo si temé che il fronte si stesse spostando nella nostra direzione”, dice Pollastri.

C’è ancora bisogno di aiuto

L’esperienza di Pollastri, Trenchi e Pasquali è stata riportata in un libro, “Ucraina la catena che ci unisce” (Editoriale Libertà). “Oggi i punti di raccolta a Piacenza si sono svuotati – denuncia in conclusione il giornalista – in pochissimi donano ancora beni di prima necessità. Ma la popolazione ucraina ha ancora bisogno di generi alimentari a lunga conservazione. Non più vestiti, ma cibo”.

Francesco Petronzio

Pubblicato il 18 marzo 2023

Nella foto, Marcello Pollastri a destra con Emanuele Maffi.

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