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Mons. Olivero al Consiglio pastorale: «non devoti, ma credenti»

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È stato il vescovo di Pinerolo mons. Derio Olivero a tenere la testimonianza principale del primo Consiglio Pastorale post-Covid della diocesi, nella mattinata del 27 giugno. All’età di 59 anni ha contratto nei mesi scorsi il Coronavirus, attraversando tutti gli stadi della malattia fino all’intubazione e la tracheotomia, in un iter durato 40 giorni esatti.
Il Consiglio ha potuto ascoltare le sue parole in video conferenza tramite la piattaforma Zoom, per mantenere un contesto di sicurezza. Mons. Derio Olivero, invitato per l’occasione dal vescovo Gianni Ambrosio, ha risposto con entusiasmo, dopo aver già dato la sua testimonianza in trasmissioni televisive e radiofoniche.

L'affidarsi a Qualcuno di più grande

“Che cosa ho imparato dall’esperienza di questi mesi? - si è chiesto in apertura -. Per la prima volta mi sono trovato faccia a faccia con la morte e ho capito che in queste situazioni tutto di sé evapora, eccetto alcune cose: la prima è la fiducia, la capacità di affidarsi a qualcosa o a qualcuno, che per noi cristiani è la nostra fede; poi le relazioni: nei momenti più difficili rimanevano consistenti nella mia mente i volti delle persone care; infine, la gratitudine: sono rimasto in vita grazie al lavoro di qualcuno, i medici che mi hanno curato e il Padre che ha vegliato su di me”.

“L’esperienza della pandemia - ha continuato - ha stimolato tutti soprattutto sul piano della fiducia e delle relazioni. Ci siamo trovati dentro qualcosa più grande di noi, che non riuscivamo a controllare: come mantenere la fiducia in quest’insicurezza? E' questa la domanda chiave che occorre porci. Prima della pandemia la nostra società non guardava con fiducia al futuro: non c’era attenzione verso le nuove generazioni, eravamo sempre ricurvi sulle emergenze dell’oggi senza proiettarci sul domani. Il virus ci ha costretto a chiederci in che cosa abbiamo fiducia per costruire il futuro".

"Prima del Covid, poi, - sintetizziamo le sue parole - si guardava soprattutto all’individuo, come spettatore o consumatore, le relazioni erano qualcosa di contorno; invece, in questi mesi abbiamo imparato che le relazioni sono essenziali, e che la società ha bisogno di riscoprire il senso di comunità. Tutta la società infatti, non solo le parrocchie o i movimenti ecclesiali, è comunità: siamo un unico corpo perché gli altri hanno bisogno del mio lavoro, e io ho bisogno del loro. Le relazioni non vogliono dire solo volersi bene, ma sapersi parte di un tutto”.

Video a cura del Servizio Multimedia per la Pastorale

Attenti all'autoreferenzialità

Mons. Derio ha continuato approfondendo alcune mancanze delle Chiesa che sono emerse in questo tempo: “il Covid ha reso evidenti tre problemi. Il primo è l’«esculturazione»: la nostra Chiesa è fuori dalla cultura, fuori dalla vita quotidiana della gente. Ma così come facciamo a rispondere alle domande delle persone?".

"Il secondo - ha proseguito  - è la fede che viene vissuta come isolata dalla vita: le chiese assomigliano a riserve indiane, dove andare una volta alla settimana, o all’anno, per ammirare gente vestita in modo strano che fa cose strane, mentre la vita vera è vissuta da un’altra parte. Il terzo è l’autoreferenzialità: tutto ciò che facciamo è pensato in partenza solo per quelli che già sono nella Chiesa. C’è un muro tra il mondo e noi, che parliamo l’«ecclesialese» solo per autogratificarci. Che cosa abbiamo imparato da questa pandemia? Che le nostre parole sono logore - ha detto citando il bergamasco don Giuliano Zanchi -: in questi mesi la Chiesa, sul piano ufficiale, ha solo dato indicazioni normative, mentre le grandi domande sulla vita che imponeva il virus erano poste ai medici o ai virologi. Quello che oggi dovremmo fare è chiederci: se fossimo dall’altra parte riterremmo che tutto quello che facciamo come Chiesa sia rilevante per la vita? L’azione della Chiesa risponde alle domande concrete poste dalla realtà? Ci sono tanti credenti non praticanti con cui entrare in un dialogo profondo e costruttivo. A noi spetta il compito di cercare ciò che è essenziale per la comunità cristiana. Papa Francesco lo ha sottolineato spesso: non occupare spazi, ma avviare processi. Fare questo significa far crescere la vita pastorale delle nostre comunità generando non devoti, ma credenti, persone che hanno veramente incontrato Dio nella loro vita”.

L'esperienza vissuta nella pandemia dalle diverse parrocchie

Al termine dell’intervento di mons. Derio il Consiglio si è diviso in quattro gruppi per lavorare sui temi della pastorale che più sono emersi al'attenzione negli ultimi mesi: spiritualità, famiglia, mezzi di comunicazione e nuove forme di povertà.

A moderare i diversi tavoli di lavoro rispettivamente don Paolo Cignatta, vicario episcopale per il coordinamento degli Uffici e dei Servizi pastorali; i coniugi Maria Letizia Cignatta e Flavio Caldini, corresponsabili dell’Ufficio pastorale della Famiglia; Barbara Tondini, giornalista e conduttrice della trasmissione “Le strade della vita”; Massimo Magnaschi, direttore dell’Ufficio Pastorale sociale e del lavoro.

Il risveglio della fede

“La pandemia è stata un’esperienza dura - ha detto don Cignatta riassumendo i lavori del primo gruppo - a cui nessuno era preparato, ma ci ha riportato alle radici della nostra fede. Si sono risvegliate domande sul senso della vita e della sofferenza, e tutti si sono messi nella posizione di chi ha bisogno di ricevere l’aiuto della Parola di Dio. Abbiamo riscoperto una dimensione profonda della nostra fede, che è sempre stata presente nella vita di molte parrocchie, ma rimaneva nascosta e sopita dall’abitudine. Abbiamo poi scoperto nuovi mezzi di comunicazione, ma allo stesso tempo abbiamo sperimentato quanto è essenziale partecipare alla messa e alla preghiera in presenza”.

In famiglia: i genitori, primi educatori alla fede dei propri figli

Il gruppo di lavoro sulla famiglia ha riscoperto come la fede può aiutare ad affrontare in modo diverso la vita di tutti i giorni: “Ci siamo resi conto - ha detto Maria Letizia Cignatta - che i genitori sono i primi educatori della fede dei propri figli. In questo siamo anche stati molto aiutati dalla diocesi attraverso sussidi e materiali. Abbiamo capito che per educare nella fede non è importante sapere qualcosa, ma vivere da cristiani la vita quotidiana: la fede infatti fa vivere in modo diverso perché insegna l’amore per l’altro e dona significato anche al gesto più piccolo. Questa pandemia ci ha anche insegnato che la morte fa parte della vita, e che dobbiamo educarci a sapere che c’è e dovremo farci i conti”.

I mezzi digitali, un luogo da abitare

L’emergenza sanitaria ci ha aperto il mondo della comunicazione digitale, e la Chiesa ha avuto l’occasione di prendere contatto con questa realtà. Ora abbiamo a disposizione molti nuovi strumenti che dobbiamo imparare a usare con responsabilità: “Non siamo più in emergenza - ha detto Barbara Tondini -, e se prima la comunicazione digitale era necessaria, ora è una scelta. In più, non stiamo parlando di strumenti, ma di luoghi da abitare, quindi dobbiamo capire quale luogo è più adatto a seconda delle esigenze: la messa, ad esempio, è preferibile farla in presenza, ma la trasmissione in digitale è utile per raggiungere anche chi non è abituato ad andare in chiesa, o le fasce più giovani, che infatti durante la chiusura hanno partecipato alle staffette di preghiera e ai collegamenti a distanza. Questi mezzi hanno ridotto la solitudine e hanno riacceso il senso di responsabilità perché spesso ci si preoccupava di collegare o avvisare tutti i membri delle comunità. Infine, non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione digitale non è qualcosa che dovrà venire, ma è già in atto, è un flusso in cui siamo dentro. I mezzi di comunicazione non sostituiscono il nostro vecchio modo di vivere, ma sono ambienti che si aggiungono, e che dobbiamo imparare a usare con responsabilità”.

Una Chiesa tra i poveri

L’emergenza sanitaria ha portato con sé pesanti conseguenze economiche che la nostra Chiesa ha da subito trovato il modo di affrontare: “La pandemia ha rappresentato un grosso impegno per la Caritas e le parrocchie - ha detto Massimo Magnaschi -. In particolare si sono fatte più evidenti povertà materiali ed esistenziali. Abbiamo visto crescere l’impoverimento di famiglie, anziani e disabili per carenza di mezzi, ma soprattutto di relazioni. Le realtà caritative si sono attivate in diversi modi, e anche nelle parrocchie dove non erano presenti strutture assistenziali si sono trovati mezzi per soccorrere chi aveva bisogno. La risposta delle varie realtà è stata in una vicinanza non solo materiale, ma anche attraverso contatti per telefono o sensibilità a distanza. L’intenzione per il futuro è quella di progettare percorsi di educazione all’assistenza a partire dalle relazioni, come ci è stato detto da mons. Derio”. 

Alberto Gabbiani

Pubblicato il 27 giugno 2020

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