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Anti discriminazione. Legge regionale a senso unico

No all’utero in affitto. Criticità sulla libertà di espressione e di educazione

mamma

Poteva andare peggio, ma non è andata bene.Anche l’Emilia Romagna ha una legge “contro le discriminazioni e le violenze determinate dell’orientamento sessuale” approvata nei giorni scorsi dopo 40 ore di aula (per gli oltre 1700 emendamenti presentati dalle opposizioni) con i voti favorevoli di PD, Sinistra italiana e Silvia Prodi (Misto), i 5 Stelle e Gian Luca Sassi (Misto), e quello contrario di Lega, Fdi e Fi. Esulta il presidente Stefano Bonaccini: “L'Emilia-Romagna fa un passo avanti importante sul terreno dei diritti, affermando il diritto alla piena autodeterminazione di ogni persona in ordine al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere”.
Ma proprio il concetto di “autodeterminazione” del proprio orientamento sessuale è uno degli aspetti più problematici del nuovo testo di legge, assieme al tema della formazione nelle scuole e alla libertà di espressione per chi dissente dalla cultura dominante e dalla “dottrina sulla famiglia” targata Lgbt.
Aspetti che proviamo ad analizzare nello specifico, nel tentativo di andare oltre aspetti ideologici e le affermazioni propagandistiche (già in chiave elettorale, sia da una parte che dall’altra) che nei giorni scorsi hanno preso gran parte dello spazio mediatico, a discapito del testo di legge (difficilissimo da trovare, ad esempio, persino nel sito della Regione Emilia-Romagna).
No all’utero in affitto. Con gli emendamenti passati in commissione dell’11 luglio scorso, grazie al contributo dell’ala cattolica del Pd che ha recepito alcune delle osservazioni presentate in aprile dal Forum Famiglie, dalla Papa Giovanni XXIII e da alcune sigle del mondo femminista, è stato sancito un importante no all’utero in affitto, col conseguente blocco a contributi ad associazioni che “realizzano, organizzano o pubblicizzano la surrogazione di maternità”. Come ha scritto Luciano Moia su Avvenire, “un passo avanti importante anche perché nelle quattro leggi regionali già approvate (in Lazio, Piemonte, Umbria e Toscana) manca un riferimento simile” e una presa di posizione rilevante in un partito che invece a livello nazionale ha avuto posizioni ondivaghe su questa pratica. Positivo anche l’emendamento che ha ribadito “il diritto dovere dei genitori di educare la prole”, con riferimento all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani, un argine (non del tutto impermeabile, come vedremo) alla diffusione della cultura gender nelle scuole e l’eliminazione dell’ambiguo neologismo “omotransnegatività” e nel superamento del concetto di “discriminazione potenziale”.


Impianto ideologico. Restano non poche criticità che hanno tutte a che fare con la compressione delle possibilità di esprimere dissenso rispetto alla retorica Lgbt non, ovviamente, sulle discriminazioni ma sul concetto di famiglia, ad esempio. In generale, sono stati tolti termini e riferimenti esplicitamente liberticidi (uno tra il riferimento all’”omotransnegatività”, sostituita con esplicita omofobia) ma resta l’impianto della legge che sposa un’istanza culturale e ideologica sopra a le altre, e punta a diffonderla.


Ambiguità pro-gender. Il testo presenta così varie ambiguità, nelle quali la diffusione delle teorie gender, anche nelle scuole, trova un’autostrada con corsia preferenziale. L’articolo 2, ad esempio, cita il “diritto all’autodeterminazione” in riferimento all'identità e all'orientamento sessuale che, come rileva ancora Moia su Avvenire, risulta “ideologico” a partire dalla rivendicazione delle stesse per-sone omosessuali di rispetto e dignità sulla base di una “condizione strutturale e costitutiva della persona”, altro che “autodeterminabile”.
Ancora, all’articolo 3 si parla solo di “attività di formazione e aggiornamento del personale docente diretta a favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo, cyberbullismo motivato dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere”. Con che tipo di contenuti, si tenterà di “superare gli stereotipi discriminatori” la legge non lo specifica; in compenso, prevede finanziamenti per le associazioni Lgbt per la formazione e l’informazione su questi temi. Così come piuttosto vaga appare la definizione di “stereotipi discriminatori”: sarà anco-ra possibile ad esempio sostenere che per il corretto e armonico sviluppo psicologico del bambino la differenza di genere dei genito-ri è un dato auspicabile, può configurarsi come pregiudizio lesivo?

A senso unico. In vari articoli della nuova legge (2, 3, 5, 8) si fa riferimento a politiche attive di formazione, informazione, di potrebbe dire an-che “inculturazione” in tutti gli ambiti dei rapporti sociali: il lavoro, la scuola, lo sport, la sa-nità, l’assistenza, le telecomunicazioni (dall’articolo 8: “rilevazione sui contenuti della programmazione regionale e locale” e “adeguati spazi di informazione e di espressione in ordine alla trattazione delle tematiche di cui alla presente legge”). Difficile non prevedere che, oltre all’opportuna lotta alla discriminazione, questi spazi diventino canali di propaganda per l’ideologia gender, di fatto squalificando il ruolo dell’ente pubblico come garante del pluralismo del pensiero su questi temi. Esistono già nell’ordinamento giuridico strumenti normativi a tutela delle discriminazioni (tra l’altro, la legge regionale 6 del 2014 sulle discriminazioni di genere), il rischio è che il testo approvato  vada oltre, colpendo non solo e non tanto chi discrimina omosessuali e transessuali ma anche chi non la pensa secondo l’ideologia gender.

Daniela Verlicchi

Pubblicato il cinque agosto 2019.

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