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La preghiera non è
parlare di se stessi

Dal Vangelo secondo Luca (18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni
che avevano l’intima presunzione di essere giusti
e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare:
uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé:
“O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini,
ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Digiuno due volte alla settimana
e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza,

non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva
 il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua
giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato,
chi invece si umilia sarà esaltato».

La nostra vita e la Parola

vg23ott22Il fariseo. Anche nella liturgia di questa domenica il brano evangelico torna sul tema della preghiera. Si capisce però immediatamente che la preghiera, il nostro modo di relazionarci con Dio, non è questione di formule o parole. Gesù dice in un altro passo: “pregando, non sprecate parole come i pagani; essi credono di venir ascoltati a forza di parole”. La preghiera è infatti specchio inconfondibile del rapporto che abbiamo con Dio e della percezione che abbiamo di noi stessi.
I pagani hanno con Dio un certo tipo di rapporto, gli osservanti della legge un diverso rapporto con il Dio a cui obbediscono, e così via. In questo brano evangelico ci viene presentato innanzitutto il modo di pregare di un fariseo. La sua sembra una bella preghiera: addirittura non chiede nulla, esprime semplicemente un ringraziamento. “O Dio, ti ringrazio…”. E successivamente parla della propria giustizia: non sono ladro, ingiusto e adultero. Non abbiamo motivi per ritenere che stia mentendo. Elenca anche tutte le opere che compie: i suoi digiuni, le decime che paga. Il problema è che tutta questa sua giustizia lo porta a disprezzare gli altri. Gesù infatti racconta questa parabola proprio rivolgendosi a coloro che disprezzano il prossimo. E come si fa a disprezzare il prossimo? Presumendo di essere giusti. E come un uomo può ritenersi giusto, da dove nasce questa presunzione? È molto semplice: basta  confrontarsi con gli altri, in particolare con chi patentemente giusto non lo è. Basterebbe mettersi davanti a Dio, al Dio che si è rivelato in Cristo, e tutta la nostra presunzione evaporerebbe come la rugiada al primo sole del mattino.
Il pubblicano. Il pubblicano invece non osa alzare gli occhi, non ha il coraggio di avvicinarsi, e colpisce il proprio petto, colpisce il cuore, colpisce l’origine dei suoi problemi. E le sue parole sono molto diverse da quelle del fariseo “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Non sta implorando una generica pietà, Sta chiedendo una guarigione, domanda un cambiamento del cuore. È questa la giustificazione: la guarigione del cuore, che è opera di Dio Padre. I pubblicani erano peccatori pubblici, disprezzati dal popolo per la loro malvagità.

Quest’uomo sta riconoscendo il suo peccato e chiede la guarigione. E per questo torna a casa cambiato, giustificato. Molto semplicemente questo accade perché lo ha chiesto. Il fariseo non ha bisogno di nulla da Dio. Forse chiede di essere premiato o approvato, ma di fatto non prega, parla di se stesso. Sta ritto in piedi perché pensa di essere giusto. Il pubblicano che vede con la coda dell’occhio in fondo al tempio gli serve proprio per gonfiare il proprio petto. Usare della legge per farne un piedistallo per guardare gli altri dall’alto in basso è una perversione terribile che allontana dal cuore di Dio che è misericordia e perdono.
Don Andrea Campisi

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